L’altra faccia della globalizzazione: il potere dei popoli

Sandro Calvani| 28 Luglio 2015

Un post a cura di Dhebora Mirabelli e Alessio Muccini con intervista al prof. Sandro Calvani

Sebbene il termine “globalizzazione” fu coniato per esplorare e definire le relazioni economiche tra popoli e multinazionali oggi è diventato un processo dinamico di relazioni multi-livello, orizzontali e verticali, che sfiorano aspetti sociali, culturali, istituzionali e politici oltre che economici.

Queste relazioni sono contraddistinte da ordine o caos?

In questa riflessione non ci soffermeremo su un’analisi accurata dei pro e dei contro della globalizzazione del nostro secolo (per quanto se ne dica tratti e aspetti della globalizzazione sono ravvisabili anche in epoche lontane) ma ci limiteremo a porre l’attenzione su alcuni effetti immediati e sotto gli occhi di tutti.

Abbiamo poi lasciato ad un cittadino globale, protagonista di alcuni processi di reset politico ed economico rappresentando l’ONU negli scenari più complessi mondiali, il compito di dare risposte ad alcune nostre domande sulla relazione tra globalizzazione e potere.

Quando leggiamo globalizzazione su un qualsivoglia articolo, post, testo accademico, analisi economica, ecc.. la prima associazione che il nostro pensiero automaticamente fa è al concetto della velocità delle informazioni.

Per chi ha la mente allenata agli studi economici a questo segue repentinamente l’associazione con l’opportunità di crescita e sviluppo economico di individui, mercati e paesi.

Tanto è vera la legge della “concorrenza perfetta” tanto il mondo si ostina a voler rimanere “imperfetto”.

Il Premio Nobel per la Pace Muhammad Yunus, sostiene che: l’Organizzazione Mondiale del Commercio sia un bulldozer al servizio delle maggiori economie, come gli Stati Uniti, che pretendono la libertà di vendere in qualsiasi mercato, ma che spesso temono, in casa loro, anche la concorrenza più piccola e innocua di qualche prodotto agricolo o artigianale; aggiunge inoltre che è necessario promuovere delle forme di aiuto sostenibile affinché la globalizzazione possa davvero essere utile allo sviluppo.

“… i conflitti per la supremazia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale” : questa volta, è stato Papa Benedetto XVI a sottolineare che  non si può dire che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale.

Che fine ha fatto il potere dei popoli e dei più deboli insito nella forza della circolazione delle informazioni? Siamo in presenza di una dicotomia tra la libera circolazione dell’informazione e la perfetta simmetria informativa a beneficio delle “crisi di potere”?

Secondo il rapporto di Amnesty International: “… con la globalizzazione il potere scivola dalle mani degli Stati e si sposta “silenziosamente” in quelle delle multinazionali, che diventano i nuovi interlocutori nelle campagne per la difesa dei diritti umani in tutto il mondo.”

Sarà sufficiente per contrastare le distorsioni e problemi economici e sociali a carattere mondiale?

L’economista Giancarlo Pallavicini in un convegno internazionale organizzato dalla Fondazione Vaticana 15 anni fa su “Etica e Finanza” iniziava la sua relazione con questi interrogativi:

“ Torna Caino? Può ripetersi l’antica vicenda che già fu in danno di Abele? Mi chiedo cioè se sia possibile che una parte dell’umanità, sospinta dalla ventata della nuova era globale, resa inarrestabile dall’innovazione tecnologica, possa disinteressarsi di quell’altra parte dell’umanità che si attarda.”

Sul tema, di seguito il pensiero del Prof. Sandro Calvani già direttore dell’Ufficio degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio ASEAN delle Nazioni Unite.

Abbiamo imparato a conoscere e a gestire crisi politiche e crisi economiche. Abbiamo visto e superato crisi energetiche e carestie mondiali. Ma un numero crescente delle nuove crisi sembrano in realtà una matassa ingarbugliata di tante crisi mischiate insieme.

Sì: io le ho chiamate crisi di potere Rubik. È una mia definizione e semplificazione per l’apprendimento, per far capire la complessità della crisi globale del potere. Il cubo di Rubik che tutti conosciamo ha 27 cubetti colorati da mettere insieme in unico cubo con sei facce dello stesso colore, scegliendo tra le 162 facce di 6 colori delle quali 108 non danno il risultato voluto. È dunque un gioco molto più difficile di un puzzle comune perché i 27 cubetti sono sempre collegati tra loro, non si può spostarne uno senza spostarne allo stesso tempo molti altri.

La trappola in cui cadono molti giocatori frettolosi è quella di cercare di finire una faccia alla volta, per accorgersi poi che per completare le altre bisogna mettere di nuovo in gioco anche la faccia già finita. È dunque un’immagine chiara della complessità di ogni crisi politica, economica o sociale moderna.

Si vuole spiegare un fenomeno mai visto di governi falliti o in via di fallimento, che non riescono a scomporre e ricomporre una transizione delle loro società, ed attuare le soluzioni che peraltro in altri paesi hanno funzionato?

Troppi governi falliscono perché cercano di accelerare la soluzione delle crisi di potere affrontando un problema alla volta: la sicurezza e la pace, oppure l’economia ed il lavoro, l’educazione e le pari opportunità, l’energia e l’ambiente, il cibo e la salute. I problemi non risolti ritornano però a far saltare gli equilibri anche delle aree già risolte.  I paesi del mondo sono oltre 200 (sette volte i cubetti di Rubik) e chi cerca di mettere a posto ogni cubetto non è solo un giocatore più o meno esperto, ma sono ormai miliardi di persone il cui potere di partecipazione al gioco continua a crescere.

I poteri tradizionali perdono peso perché la gente non è più disposta a delegare?

No, non è solo un trasferimento di potere o uno sbilanciamento come sui piatti di una bilancia, cioè uno cresce di peso e ha il sopravvento. È invece un incatenarsi di poteri diversi che devono muoversi all’unisono proprio come i cubetti collegati nel cubo di Rubik. Nel 2013 il politologo venezuelano Moisés Naím ha definito in un libro il disordine crescente come “La fine del potere”: il potere è diventato “più facile da ottenere, più difficile da usare e più semplice da perdere”. Le cause dell’epidemia di poteri falliti o indeboliti sarebbero l’esplosione demografica, l’aumento della mobilità delle persone e delle migrazioni e un cambiamento nelle norme culturali accettate da tutti.

Certo la popolazione mondiale cresce più lentamente che nei decenni passati; ma la gente comune è sempre meglio informata dei suoi diritti e di come i potenti usano o abusano dei beni comuni.  Le migrazioni sono divenute irrefrenabili in molti scenari del Pianeta e molti governi si occupano solo -e invano- di fermarle invece che capirle e gestirle. Le culture e le religioni si sono ormai mischiate e scontrate in molte forme e si potrebbe dire che le regole di comportamento di ogni persona sono diversificate in milioni di variazioni. Alcuni ex-capi di governo e capi di Stato hanno riconosciuto che Naím ha azzeccato la sua analisi politica.

I social network e la nuova economia sembrano fatti a posta per dare a ciascuno un’impalcatura dove giocare un ruolo da protagonista.

I creatori dei social networks e delle diverse forme di nuova economia cavalcano l’onda dei nuovi poteri decentrati e i primi studi sembrano confermare che meno i governi interferiscono con le libertà individuali e meglio è. Ma allo stesso tempo si dovrebbe riconoscere -come stanno facendo alcuni governi asiatici- che anche i beni comuni sono divenuti globali e non si può certo sperare che le reti telematiche o comunità urbane più intelligenti li possano governare da sole. In questo panorama si inserisce il protagonismo crescente delle organizzazioni della società civile che si collegano tra loro in grandi network globali basati sulla fiducia reciproca e sulla collaborazione inclusiva e partecipativa. In pratica, per far funzionare il mondo come una grande famiglia umana, ci vogliono relazioni forti come quelle tra i membri di una famiglia.

Tra le centinaia di reti di scambio e condivisione di buone pratiche due sono divenute ormai strumenti irrinunciabili per una cittadinanza globale: l’associazione mondiale delle ONG World Association of NGOswww.wango.org con le sue oltre 30 aree di lavoro e la rete www.beyond2015.org che ha reso possibile la creazione di una voce unica tra migliaia di organizzazioni popolari per il nuovo piano mondiale di obbiettivi di sviluppo sostenibile da realizzare entro il 2030.  Per chi vuole partecipare, la prima regola del potere di Rubik è semplice: bisogna decidere di prendere in mano il gioco e provare a trovare delle soluzioni. Appena trovata una soluzione bisogna essere pronti a rimetterla in discussione, se è necessario per allargarsi a soluzioni efficaci in più settori, più comunità o più paesi.

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