L’Imperatore Adriano: un modello di leadership interculturale ispirato alla responsabilità sociale?

Dhebora Mirabelli | 26 Maggio 2015

Luigi Gentili nel libro “Il potere della leadership” sottolineava la differenza dei due stili caratterizzanti l’impero romano sotto la guida degli imperatori Traiano e Adriano.

Il primo più attento all’espansione e all’idea di sopraffazione dei popoli non rinunciava all’affermazione della sua come cultura dominante rispetto alle altre; il secondo più dedito alle opere pubbliche e alle riforme civili si ricorda come modello di integrazione tra culture e popoli diversi oltre che di salvaguardia dei diritti e della dignità degli schiavi.

L’imperatore Adriano viene ricordato, tra le altre cose, ad esempio per queste importanti riforme civili:

  • tolse ai padroni il diritto di vita e morte degli schiavi;
  • stabilì pene severe contro i padroni che maltrattavano gli schiavi;
  • proibì il commercio degli schiavi quando si offendeva il pudore e le leggi dell’umanità;
  • tolse la pena di morte agli schiavi che, in caso di uccisione del padrone, erano così vicini a lui da potergli recare aiuto o danno mentre prima venivano condannati alla pena capitale tutti gli schiavi che abitavano la casa del padrone ucciso.

Di sicuro Adriano potrebbe essere paragonato ad un moderno manager di una grande e globale multinazionale promotore di responsabilità sociale di imprese.

Anche un manager, infatti, come l’imperatore di fronte a scelte di internazionalizzazione si trova a dover scegliere, al netto di tutto il resto, se respingere o accettare le differenze culturali della popolazione autoctona.

Se volessi dirla con le parole del noto sociologo americano William G. Sumner, il nostro manager ispirato da pratiche di responsabilità sociale dovrebbe decidere di abbandonare l’etnocentrismo che spesso si manifesta nell’uso quotidiano nell’azienda de-localizzata del “gruppo di noi” (we-group) e il “gruppo di altri” (out-group) quando si pensa a strategie e organizzazione del lavoro.

Non è forse questo il principio alla base della salvaguardia dei diritti e della dignità di tutti i lavoratori in un contesto globale?

Non è questo il principio di pari dignità e uguaglianza sancito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo?

Troppo spesso abbiamo visto ancora oggi in giovani manager trasferiti “fuori sede” riunirsi e  aggregarsi nel  “gruppo di noi” corrispondente al proprio gruppo di appartenenza, quello che si sente forte e potente rispetto a tutti gli altri gruppi, percependo i propri criteri di condotta come i soli validi; viceversa gli operai e la manovalanza straniera era il “gruppo di altri” coincidente invece con il gruppo degli “estranei”, quello che viene visto dai primi come inferiore e culturalmente arretrato.

A questi ultimi viene inconsciamente e quasi in modo naturale riservato una sorta di ostracismo, che si sostanzia nella mancanza di attribuzione di ruoli e mansioni di prestigio in azienda e gli vengono precluse qualsiasi forma di schieramento ed impegno gestionale/manageriale. Sigmund Freud non avrebbe esitato a parlarci di “aggressività e/o frustrazione trasferita”, spiegandoci che la vita sociale, quando è organizzata, tende a reprimere alcuni moti pulsionali indispensabili alla convivenza.

Un gruppo di manager de-localizzato e “costretto” al trasferimento tradito dalle proprie false speranze e/o aspettative inibito nelle sue aspirazioni può deviare la sua frustrazione aggredendo quei gruppi che si trovano in posizioni svantaggiate.

Il tutto con ricadute nel breve periodo su rendimento e organizzazione efficace anche in termini di produttività. Non è di certo un caso che in organizzazioni aziendali tipo queste si registrano livelli di turn over pari al 25%.

E’ tutto legato alla difficoltà per un’azienda che internazionalizza alla maggior complessità organizzativa che si trova ad affrontare ma che diventa insuperabile senza un atteggiamento positivo verso l’interculturalità.

Gestire le difficoltà di imprese legate alla diversità di cultura significa promuovere prima di ogni altra cosa l’inclusione socio-lavorativa tra etnie e popoli diversi senza pregiudizi e senza atteggiamenti di supremazia e sopraffazione di una cultura verso un’altra.

Ecco perché possiamo concludere dicendo che è solo con una leadership interculturale capace di contenere l’etnocentrismo attraverso il lavoro congiunto che si può veramente garantire lo sviluppo delle organizzazioni aziendali in contesti globali.

 

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