“I Protagonisti”: Gian Paolo Montini, Associazione Peter Pan Onlus

“Nel momento stesso in cui dubitate di poter volare, cessate anche di essere in grado di farlo.”

Così scriveva, a inizio ‘900, lo scrittore scozzese James Matthew Barrie, nei suoi racconti di ‘Peter Pan’.

Oggi, per la rubrica “I Protagonisti”, intervistiamo uno storico partner oltre che amico di Social Change School, che incarna perfettamente queste parole, e rappresenta un po’ tutti i sogni dei personaggi di Barrie: stiamo parlando di Gian Paolo Montini, Direttore Generale dell’Associazione Peter Pan Onlus, organizzazione che si occupa di dare accoglienza e sostegno alle famiglie dei bambini e degli adolescenti malati

Andiamo a conoscerlo:

D.: Scopriamo chi è Gian Paolo Montini: da Ingegnere Aeronautico a Direttore Generale dell’Associazione Peter Pan Onlus. Sembrerebbero due strade in completa contrapposizione…

R.: Se devo pensare a quello che avevo in testa, ai i miei sogni, ai desideri di 30-40 anni fa non c’era quello di ritrovarmi a Peter Pan, nella cooperazione sociale, nelle ONG come adesso.

Io da ragazzo sono sempre stato affascinato dal volo, dalle moto, da molti sport, ma soprattutto dalla tecnologia, da ciò che ci potevi fare, che potevi riuscire a creare, dalla tecnologia come strumento di potenziamento delle capacità umane, creative, e anche di solidarietà, come ho avuto modo di scoprire.

Questo mi ha portato a fare il ‘professionale’ di elettronica, l’operaio specializzato, il riparatore tecnico TV. Appena diplomato in un istituto professionale ho fatto il turnista di notte in SIP, e, nello stesso tempo mi sono iscritto a ingegneria. Ho fatto il percorso di ingegneria aeronautica con una tesi in aerospaziale. Dopo la laurea mi sono specializzato in telecomunicazioni. Sono entrato in SIP, in quella che è diventata poi Telecom Italia. Ho lavorato negli Stati Uniti: un’esperienza bellissima nella quale mi sono innamorato del paese, dove sono stato accolto benissimo, e ho veramente trovato altri parenti, fratelli e sorelle.

Poi sono tornato in Italia, perché nel frattempo è nata la prima figlia. In me aveva  cominciato a lavorare sotto un desiderio che nasceva nell’altro percorso che io parallelamente ho sempre fatto.

D.: Perché tu, già dai 20 anni, avevi un altro desiderio…

R.: Sì. Sai quando avevo 9 anni un ubriaco ci ha preso in pieno a Corso Francia, è morta Mamma, io e mio fratello ci siamo rotti le gambe, e siamo stati tanto in ospedale con il rischio cancrena. Ho quindi iniziato l’adolescenza con un po’ di problematiche chiaramente, nonostante un padre eccezionale, e un po’ di preoccupazioni. Dopo un’adolescenza che è stata travagliata come per tutti, e che mi ha portato a scoprire il mondo della solidarietà e un cammino di fede.

Attorno ai 20 anni ho cominciato a frequentare un gruppo di parrocchia e, nello stesso tempo, anche una ragazza che mi ha portato con se: lei voleva entrare nelle case di prima accoglienza della Caritas per i minori in attesa di giudizio, per primo reato o per altre situazioni difficili. Lei non è rimasta, io invece sì.

Io praticamente da quel giorno, tutti i fine settimana li passavo come volontario nei centri di accoglienza, e ho scoperto un mondo diverso; e allo stesso tempo ho scoperto che mi piaceva starci. Siccome ci passavo i fine settimana la storia con la ragazza è finita lì… (ride)

Da allora ho collaborato anche con la creazione della Banca dati della Federazione Italiana del Volontariato, ho potuto girare tutto il terzo settore del Lazio e ho conosciuto cooperative, associazioni, e mi si sono aperti gli occhi. Ho inoltre sempre fatto il catechista per i ragazzi e per i più piccoli. Insomma sono sempre rimasto in quest’ambito.

Sono innamorato del prossimo, posso dirtelo senza vergognarmene… Sono proprio innamorato del prossimo; questa è una cosa che ce l’ho dentro. Mi rende felice stare con gli altri!»

D.: E quando questo, come tu lo hai definito, percorso è divenuto prevalente nella tua vita?

R.: A 40 anni, d’accordo anche con mia moglie, lei vedeva in me questa tensione interiore, questo desiderio di voler unire le mie caratteristiche manageriali professionali con il cuore dell’altra vita parallela. Volevo aiutare il prossimo, volevo fare qualcosa soprattutto per i minori, per i più piccoli e le loro famiglie. Alla fine si sono aperte delle porte, dopo anni di tensioni, anni di ricerca, è arrivata la soluzione, si è aperto uno scenario e ho dovuto solo decidere se dire sì o no. Ho detto sì e ho lasciato Telecom, e mi sono ritrovato in Peter Pan come direttore generale.

D.: Gian Paolo, non sei il primo dei nostri Protagonisti (NdR.: vedi intervista Moschochoritis) che nasce Ingegnere e si ritrova con una vita e una carriera nel mondo della solidarietà. Quanto servono la razionalità e il metodo, per poter affrontare le difficoltà e le sfide del non-profit?

R.: Essere ingegnere ti porta a cercare di capire il funzionamento delle cose partendo dal dettaglio, ma soprattutto dall’insieme. Quindi come darsi degli obbiettivi, capire come arrivarci, capire questo che impatto ha su tutto l’ambiente in cui poi si agisce. È la caratteristica della sintesi e della visione d’insieme delle cose.

D.: Ci presenti l’associazione Peter Pan e la sua identità?

R.: L’Associazione Peter Pan nasce grazie alle madri dei bambini malati, nasce dal bisogno, nasce da chi lo vive in prima persona.

In particolare da due madri che hanno vissuto la terribile esperienza di perdere i propri figli per la malattia.

Quando si sono conosciute, e hanno conosciuto pure altri genitori, hanno deciso di creare un’associazione con lo scopo di sostenere le famiglie con i bambini malati di tumore, di dare loro accoglienza in una struttura. Da questa idea, nel ’94 è nato Peter Pan.

Dal ‘94 al ’97, oltre alla raccolta fondi e al volontariato, hanno cercato la struttura. Hanno creato la prima casa-famiglia di Peter Pan nel ’97, quando sono iniziati i lavori, finiti poi nel 2000 con l’inaugurazione. L’accoglienza quindi è iniziata nel 2000. Ora ci sono altre due strutture: la ‘Seconda Stella’ e la ‘Stellina’, vicinissime tutte e 3 fra di loro, sempre a Roma, a Trastevere, vicino la sede dell’Ospedale Pediatrico ‘Bambino Gesù’

D.: Facciamo il punto su alcune delle parole che lo caratterizzano. Iniziamo da ‘rispetto

R.: Il rispetto si muove su due livelli: il primo è quello della libertà: qualsiasi cosa io pensi per te, io devo sempre rispettare la tua libertà di scelta. Vivere insieme però non significa che ognuno fa come gli pare. Il secondo livello è relativo alla libertà di pensiero e di cultura: c’è rispetto per quello in cui credi. Trovare la comunione con abitudini, religioni, diversi stili di vita. Da noi, per esempio, convivono nella stessa cucina, il luogo di maggiore condivisione, il cristiano, il musulmano, l’ebreo. Lo vedi subito che la comunione e la condivisione producono pace. L’armonia però non è spontanea, deve essere aiutata: i fattori di nervosismo sono tanti, stress, dolore, disperazione…

D.: Seconda parola-simbolo: ‘ospitalità’. L’associazione Peter Pan, letteralmente ‘accoglie’ intere famiglie nelle sue case…

R.: Il cuore pulsante dell’ospitalità è il prendersi cura dell’altro, il ‘Care’ per utilizzare un termine inglese. Il prendersi cura significa che ogni particolare deve essere ben curato.

Il criterio dell’ospitalità è che non solo ti do un tetto, ti do le chiavi, entri dentro e c’è un letto: io ti ospito e mi prendo cura delle tue necessità. Questo significa avere attenzione e metterti al centro: “tu sei la persona per me adesso più importante qua dentro, tu e questa battaglia difficilissima che tuo figlio sta affrontando e combattendo in ospedale. Io voglio che tutto il resto per te non sia un problema” – Dal punto di vista dei bambini poi, l’amore cura: la terapia funziona meglio se tu stai meglio. I bambini delle famiglie ospitate da Peter Pan passano fino al 75% del loro tempo in casa e non in ospedale: questo significa che i bambini passano più tempo con le loro famiglie, e sono più felici, inoltre l’ospedale ha i letti a disposizione per poter curare altri bambini…

D.: E, per finire, empatia. Una delle doti principali richieste per far parte de ‘L’associazione Peter Pan’. Come definiresti esattamente l’empatia?

R.: L’empatia è una delle caratteristiche base per poter lavorare nel non-profit. Alla fine l’empatia fa il 50% del lavoro, poi l’altro 50% lo fa la propria capacità professionale e manageriale, però è l’empatia che ti da nel terzo settore quella carica creativa e nello stesso tempo quella forza per superare i problemi, non arrendersi e non cercare un’altra soluzione.

D.: Come si riesce ad affrontare la malattia di un bambino? E come la famiglia di quel bambino?

R.: A Peter Pan diciamo sempre che “noi non diamo giorni alla vita, a quello ci pensa la scienza e, naturalmente, Dio. Noi cerchiamo di aggiungere vita a ogni giorno”.

Noi lo diciamo a chi sta vivendo un momento difficilissimo: concentrati su quel momento. Anche nel confronto con i bambini, la bellezza di poterci stare, di permettergli di sorridere subito, ha un valore assoluto.

Non fai mai qualcosa convinto che salverai, fai qualcosa convinto che stai aiutando ora. L’importante della vita è ora e adesso.

D.: Quali sono stati i momenti di maggior difficoltà incontrati finora?

R.:  miei momenti più difficili sono stati legati sempre e solo alle relazioni. I problemi tecnici non mi hanno mai spaventato e l’esperienza mi ha insegnato che poi sono sempre stati superati. So che se ci si impegna, assieme agli altri, dai momenti difficili poi si esce sempre fuori. Da dove invece non se ne esce e dalle relazioni, perché una relazione è fatta da due: me e l’altro. Quando non riesci a ricucire è sempre uno strappo, una ferita. Io sono innamorato del prossimo e quando si crea una separazione non piacevole, alla fine ci rimango male… È quello che non mi fa dormire la notte.

D.: E un episodio che ricordi in modo particolare?

R.: Un momento che mi porto nel cuore forte è quando, una bambina che è stata tre anni a Peter Pan, è arrivata a 10 mesi, ha iniziato a camminare dentro la casa di Peter Pan… Sai, io come direttore sono sempre stato visto con un ruolo un po’ così, non sono quello che gioca spesso con i bambini, eppure questa bambina mi ha dato un momento di grande gioia quando, mentre io stavo parlando in ufficio con una persona, lei è arrivata, ha aperto la porta, aveva 3 anni, è entrata e mi ha abbracciata… Ha voluto essere presa in braccio. È stata una grande gioia. Questa bambina dopo 10 giorni è morta, e ho visto proprio come un suo saluto d’amore che mi ha fatto. Questo abbraccio oramai è sedimentato nel cuore. Io lo vedo come un momento di gioia, perché oltre a me ha salutato tutti, tutte le persone cui ha voluto bene…

D.: In Peter Pan utilizzate i nomi dei personaggi dei romanzi di Barrie: avete le ‘Wendy’, le ‘Trilly’, gli ‘Spugna’… Chi è il vostro Capitan Uncino?

R.: Capitan Uncino è la malattia! È il cattivo che però può essere sconfitto, considerando che, ora il 75% dei nostri piccoli pazienti può essere guarito rispetto al 25% di 20 anni fa. Capitan Uncino, come nei romanzi è la paura di diventare adulti, è anche la paura della malattia, del futuro

D.: Hai mai avuto dei ‘nemici’? Persone, idee, preconcetti, magari anche parti di te stesso…

R.: Il mio più grosso nemico sono io stesso, perché sono un insoddisfatto cronico di me stesso. Non mi accontento mai, non sto mai fermo, è una cosa eccessiva e non aiuta per la serenità. Però penso che se non ti prendi dei rischi nella vita, come gruppo, come persona, non puoi mai cambiarla questa tua vita. Io non avrei mai scoperto cose belle di me e degli altri se non avessi lasciato il mondo profit e non avessi preso il rischio di seguire questa strada. Essere troppo ragioniere non ti permette di essere felice e di fare cose innovative; prima fra tutte la scelta del matrimonio con mia moglie Chiara, e l’arrivo di due bellissime figlie: Giulia e Gaia.

D.: Gian Paolo, cosa bisogna avere per poter lavorare in un Associazione come ‘Peter Pan’? E cosa, invece, è assolutamente da evitare?

R.: Da evitare per entrare in Peter Pan è pensare di avere le soluzioni in tasca ed essere i migliori. Bisogna avere sicurezza in se stessi, ma non presunzione. Una persona sicura di se stessa ascolta, una persona sicura di se stessa non ha bisogno di prevalere sull’altro, una persona sicura di se stessa fa passare all’incrocio… e non ha difficoltà a mettersi in terra a giocare con un bambino, o a pulire i bagni come ‘Spugna’

(NdR.: Spugna nell’Associazione Peter Pan è il nome di chi fa parte dell’equipe responsabile delle pulizie nelle strutture)

D.: Peter Pan è un bambino che può volare e non diventa mai adulto. Quanto c’è di Peter Pan in Gian Paolo Montini?

R.: A me il volo è sempre piaciuto, ho fatto anche l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, ma poi sono tornato a Roma prima del giuramento, perché mi avrebbero fatto solo studiare e non volare. Di Peter Pan ho che mi sento molto bambino nel cuore. Io non sono un tipo serioso; vivo in maniera molto gioiosa, mi piace sempre vedere, conoscere, volare da un mondo all’altro… Sorridere di fronte a un tramonto, di fronte alla natura, alla bellezza naturale delle cose, quella è la parte del bambino che, per fortuna, non ho perso e non voglio perdere.

D.: “Per imparare a volare servono pensieri felici”, questa è una delle frasi simbolo dell’Associazione Peter Pan – come si fa ad avere pensieri felici? E cos’è la felicità oggi?

R.: Eh.. (ride) questa è una domanda per Papa Francesco. I pensieri felici sono aggrappati molto alle persone che ti amano. Sentirsi amati è un pensiero felice. Il bambino si sente amato dai genitori e questo lo rende felice. Puoi pensare allo yacht, a una casa a Manhattan, alla tua azienda che fattura 100 miliardi di dollari l’anno, quello non è un pensiero felice. Vedi invece persone felicissime perché si sentono amate anche se sono povere. Una famiglia che si sente amata venendo a Roma per curare il figlio ti dona un pizzichino, un granello della polverina di Trilly…

D.: Gian Paolo, qual è un tuo sogno?

R.: Mi sta rodendo dentro vedere come malamente accogliamo gli immigrati, come vengono trattati come cose gli anziani e molte altre categorie di persone… Il mio sogno è che lo stile di accoglienza di Peter Pan, con i suoi valori di ospitalità e di rispetto si allarghi anche ad altre fasce di categorie che hanno bisogno… Anziani, immigrati, richiedenti asilo: poter fare con loro un percorso, accompagnarli nelle fasi più complicate delle loro vite. Siamo pieni di anziani soli per esempio.

D.: Per concludere, un consiglio in quattro parti a chi vuole dedicare la sua vita agli altri e seguire una carriera nel non-profit: Cosa deve cercare dentro di se, che sacrifici deve essere pronto a fare, quali traguardi si deve porre e quali soddisfazioni ci  si può aspettare?

  • Cosa cercare dentro di se? Se stessi! Quando si decide di seguire una vita, una carriera senza inseguire il successo e la fama, bisogna essere consapevoli di chi si è. Ti devi conoscere bene. È una scelta importante che impatta sul prossimo, e non deve essere una scelta del momento, se vuoi veramente migliorare il mondo devi chiederti se sei consapevole di te stesso e se vuoi migliorare te stesso;
  • Che sacrifici essere pronti a fare? Rinunciare a tutte le cose, ma non a se stessi. Se sei molto legato alle cose, alla stabilità, al cordone ombelicale con la famiglia di origine, devi accettare di poterti allontanare da tutto ciò. Bisogna però avere un proprio Codice Etico, e a quello non bisogna rinunciare mai; non posso mai prostituirmi, anche per le belle cause, devo avere rispetto per me stesso. Io rinuncio a un mondo fatto di possesso per un mondo fatto di persone, a iniziare da me;
  • Quali traguardo porsi? Non deve essere un obbiettivo fisico. Il traguardo, è quello di riuscire a fare al meglio qualsiasi cosa che fai: devo sempre andare con l’intenzione di dare il meglio di me stesso, sia che si tratti di piccole cose che di grandi imprese. Nel fare il meglio scoprirai anche che ci sono cose che farai meglio di molte altre, e capirai il tuo percorso;
  • Quali e quante soddisfazioni? Tantissime! La soddisfazione più grande è quella di essere felice. Nel fare al meglio le cose, a prescindere dal risultato, senti che il Mondo ti ama di più, anche nella sofferenza.

Di Guido Pacifici

La rubrica ha cadenza mensile ed è ideata e curata da Guido Pacifici, Giornalista e Autore Televisivo, con Marco Crescenzi.

Foto: Gian Paolo Montini, presa dal blog giorgiapetrini.me 

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