Quella che stiamo vivendo è senza dubbio un’epoca complessa e di grandi cambiamenti; per comprendere il Mondo attuale, le sue trasformazioni, i suoi problemi, è importante, anzi necessario, avere grandi occhi, grande sensibilità e grande esperienza.
Caratteristiche che di certo non mancano a Farida Bena, personalità assoluta nel mondo internazionale del NonProfit, e, da poco, Direttrice del Master PMC in Project Management for International Cooperation, Euro-Project Management and Local Development della Social Change School.
Le sue capacità, sia innate che acquisite nel corso di una brillante carriera, l’hanno portata ad affrontare, e risolvere, le più complesse problematiche che può proporre la cooperazione internazionale, dai campi dell’Africa Centrale, agli uffici delle capitali europee.
È quindi un privilegio poter apprendere dalle sue stesse parole, la sua ricca e intensa storia e annotare i consigli che ha da dare a chi vuole percorrere la strada della solidarietà.
D.: Farida ben trovata, per presentarti ci racconti da dove vieni, qual è la tua estrazione e che percorso professionale hai seguito ?
R.: «Da sempre mi piace confrontarmi con altre culture e altri modi di pensare, non solo per curiosità ma anche per cercare di capire come affrontare e risolvere gli stessi problemi in maniera diversa. Mentre studiavo all’università facevo volontariato a Milano come attivista per varie organizzazioni NonProfit; poi ho fatto un tirocinio al Segretariato delle Nazioni Unite a New York che mi ha segnato profondamente, aprendomi gli occhi sul mondo degli aiuti umanitari. Erano gli anni del genocidio in Ruanda e della guerra nei Balcani e questo stage mi ha fatto capire definitivamente che il mio futuro sarebbe stato nel mondo della cooperazione.
Dopo il Master, ho cominciato a seguire una campagna di advocacy contro l’uso dei bambini soldato, dapprima a Bruxelles, poi a Washington e infine in vari paesi dell’Africa sub-sahariana, a cominciare dalla Sierra Leone con COOPI e dalla Repubblica Democratica del Congo con International Rescue Committee (IRC) fino ai paesi del sud-est asiatico con Save the Children, CARE e ONG locali. Gradualmente ho ampliato il mio raggio di azione, specializzandomi in protezione dell’infanzia e fornendo un supporto tecnico a queste ONG e organizzazioni multilaterali come l’UNICEF e la Commissione Europea. A mano a mano che mi occupavo di fenomeni di abuso e sfruttamento dell’infanzia, però, sentivo l’esigenza di risalire alle cause di questi fenomeni – le profonde disuguaglianze che dividono Nord e Sud del mondo, le ingiustizie croniche che impediscono ad intere comunità e nazioni di progredire.
È per questo che nel 2007 ho accettato di aprire il primo ufficio di Oxfam in Italia. Avevo già fatto un’esperienza simile, fondando e dirigendo la filiale belga di un’ONG di origine americana, International Rescue Committee. Negli anni successivi, ho portato avanti tante campagne di giustizia sociale, coprendo temi come la salute, l’istruzione, la sicurezza alimentare e la lotta ai cambiamenti climatici. Oltre ad attività di advocacy, ho seguito da vicino le politiche italiane di cooperazione con i paesi in via di sviluppo, in particolare le questioni inerenti all’efficacia degli aiuti alla cooperazione.
Negli ultimi anni ho avuto modo di approfondire queste tematiche all’OCSE come Analista delle Politiche presso la Direzione per la Cooperazione allo Sviluppo e poi per la principale piattaforma globale della società civile in materia di efficacia della cooperazione e dello sviluppo, la CSO Partnership for Development Effectiveness. Da poco sono diventata consulente per offrire un supporto prevalentemente strategico a ONG e governi sui principali temi della cooperazione.»
D.: Hai girato il mondo e hai operato presso diverse grandi realtà del non-profit: come descriveresti l’ambiente delle ONG internazionali?
R.: «Senza voler dare giudizi generici, credo sia un ambiente in rapida evoluzione. Fino a qualche anno fa le ONG internazionali erano spesso grandi gruppi di origine anglosassone o comunque del Nord del mondo. Ora invece ci sono sempre più organizzazioni e coalizioni del Sud con ambizioni e finanziamenti globali, e questo alimenta un dibattito importante su quale ruolo le ONG del Nord debbano ricoprire nel mondo di oggi. Alcune famiglie di ONG hanno deciso di spostare la loro sede a Nairobi o Johannesburg, ma non basta cambiare paese. Occorre anche ridefinire il proprio valore aggiunto, assicurando più complementarità e meno competizione.
Un fenomeno trasversale, comunque, è la professionalizzazione crescente delle ONG, soprattutto di quelle internazionali. Fare volontariato è importante ma non più sufficiente. Le ONG guardano sempre più volentieri al modello di business del settore privato, dove gli obiettivi si stabiliscono ex-ante e vengono monitorati costantemente.»
D.: Quali sono stati episodi o momenti particolarment difficili o pericolosi nel tuo lavoro, e quali di maggiore soddisfazione?
R.: Ce ne sono stati tanti, sia di difficoltà che di soddisfazione. Come leader di un progetto, spesso ho dovuto prendere decisioni impopolari, come ad esempio decidere chi poteva beneficiare di un sussidio scolastico e chi no. Sono scelte che sai che cambieranno la vita di un’adolescente e della sua famiglia. Tra i momenti di maggiore soddisfazione, ci sono le riunificazioni familiari di tanti ragazzi e ragazze abbandonati al confine tra Guinea e Liberia… Impossibile non commuoversi!
D.: Farida, secondo te qual è la dote, o la caratteristica, più importante da avere per poter avere una carriera nel non-profit? E quali le cose assolutamente da imparare?
R.: «Direi una combinazione di leadership e integrità morale. Spesso ci si trova davanti a problemi enormi che non si possono neanche lontanamente affrontare da soli. Per me un buon manager NonProfit è chi sa circondarsi delle persone giuste e motivarle per portare avanti un progetto o una campagna. Allo stesso tempo, è importante ricordarsi perché si è scelto di lavorare nel NonProfit e mantenere una forte spinta idealistica. Nessun settore è perfetto, neanche il no-profit, ma il fatto di lavorare duramente per un obiettivo sociale non dovrebbe mai giustificare comportamenti scorretti verso i propri colleghi o, men che meno, verso chi riceve il nostro aiuto.
Può sembrare un’ovvietà ma in cooperazione è utilissimo imparare dai propri sbagli, perché spesso si devono sperimentare nuovi approcci di gestione e si riesce a trovare la modalità giusta solo dopo aver tentato varie volte.»
D.: Farida, Quali sono stati gli episodi professionali più significativi che ricordi?
R.: «Più che episodi singoli, mi vengono in mente tipi di esperienze ricorrenti che mi hanno insegnato verità importanti. In primis, se fai cooperazione in un paese in via di sviluppo e provieni da un’economia avanzata, e magari sei anche di carnagione chiara o hai tratti occidentali, ti ritroverai quasi sempre al centro dell’attenzione della comunità in cui lavori. Questo può essere un fattore altamente positivo o negativo, a seconda di come intendi usare la tua posizione. È importante esserne consapevoli e assumere il proprio ruolo con umiltà e coraggio, mantenendo i piedi saldamente a terra.
Come campaigner, mi è capitato talvolta di promuovere azioni che francamente non erano né realistiche né sostenibili. L’ho fatto perché ci credevo con tutta me stessa, perché volevo a tutti i costi raggiungere gli obiettivi della mia organizzazione, ma col senno di poi ora passerei molto più tempo a capire il contesto di riferimento, a progettare campagne solo dopo aver consultato il mio pubblico target, e a individuare quei fattori che impediscono il cambiamento di idee e comportamenti.
Direi infine che una grande lezione è stata quella di imparare a cambiare il mondo un passo alla volta. Anche i più grandi programmi di cooperazione sono fatti di attività quotidiane, a volte noiose o burocratiche. Mantenere alta la motivazione, continuare a voler far bene le cose anche in questi frangenti non è facile, ma ci avvicina sempre più al traguardo. E questo vale anche per le persone. Delle migliaia di bambini e adolescenti che hanno lasciato i gruppi armati per tornare a casa in Congo grazie ai programmi che ho gestito, a volte penso che forse la maggior parte di loro ha ripreso le armi per disperazione. O forse no. Non lo saprò mai con certezza, ma se anche solo uno di quei bambini è rimasto con la propria famiglia, allora ne sarà valsa la pena.»
D.: Avendo lavorato in Europa, e nel Mondo, quali pensi che siano le differenze più rilevanti per gli operatori del settore nei vari mercati lavorativi?
R.: «Come dicevo prima, è in atto un cambiamento importante nel settore della cooperazione. L’accento si sta spostando sempre più sulla gestione diretta di programmi di cooperazione da parte di associazioni locali nei paesi in via di sviluppo. Le maggiori ONG locali stanno sempre più assumendo un ruolo primario nel portare avanti campagne e attività di advocacy nazionali e globali. Tutto ciò è coerente con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile concordati all’ONU due anni fa.
Consiglio quindi a chi viene da paesi del Nord di affinare le proprie capacità non solo nel gestire attività in prima persona, ma soprattutto nel trasmettere le proprie conoscenze allo staff locale con cui si lavora. Il rafforzamento delle capacità avrà un ruolo fondamentale nella cooperazione del futuro.
Nel settore emergenze, per sua natura, queste considerazioni vanno bilanciate con l’esigenza di rispondere alle crisi umanitarie in tempi stretti. Il discorso del ‘capacity building’ resta essenziale, ma forse più in una prospettiva di preparazione alla crisi o al disastro naturale.
È importante anche tenere presente che molti di quei paesi che definiamo ‘poveri’, come la Nigeria, in realtà sono diventati negli anni paesi a medio reddito, con tutta la complessità che questo termine comporta. I cooperanti del 21esimo secolo devono essere pronti a calarsi in contesti ambigui e multiformi, ben lontani dagli stereotipi monolitici che spesso ci propinano i media.»
D.: Farida, tu curi un blog (NdR.: Kiliza.org) dedicato a dare voce ai cittadini del Sud del mondo. A chi ti riferisci con questa definizione?
R.: «Mi riferisco in particolare a chi viene definito in gergo un potenziale ‘beneficiario’ di progetti umanitari, di sviluppo o di azioni volte a contrastare gli effetti peggiori del cambiamento climatico nei paesi del Sud. Queste persone raramente hanno l’opportunità di far sentire la propria voce al di fuori del loro villaggio, della loro città o nazione. Possono essere consultate da ONG e donatori, tuttavia spesso questo processo si svolge in maniera sommaria o sbrigativa. Quasi mai le voci dei cittadini dei paesi in via di sviluppo riescono ad incidere sulle politiche globali di cooperazione.
Eppure sono proprio questi ‘beneficiari’ a conoscere meglio l’ambiente in cui vivono. Spesso possiedono conoscenze specifiche che aiuterebbero i cooperanti a gestire meglio il progetto di turno. A volte si rivelano più preziosi di tanti ‘esperti’ paracadutati da Londra o Sydney, ma pochi li ascoltano. E così ho deciso di creare un blog dedicato esclusivamente alle loro opinioni. Cosa pensa questa gente quando si sente chiamare povera? Che cosa chiedono i rifugiati siriani alle ONG che distribuiscono acqua in Libano, per esempio? Che cosa preoccupa di più le giovani ugandesi quando pensano al loro futuro?
Credo che globalmente ci stiamo muovendo nella giusta direzione. Alcune fondazioni private stanno sperimentando nuovi approcci e tecnologie – incluso l’uso massiccio della telefonia mobile nei paesi del Sud – per coinvolgere maggiormente i cittadini del Sud del mondo nelle loro attività filantropiche. È tempo di fare un salto mentale: le persone che vogliamo aiutare tramite la cooperazione internazionale, prima di diventare nostri potenziali ‘beneficiari’, sono uomini e donne come noi, con le proprie idee e convinzioni. Queste persone hanno diritto di avere voce in capitolo.»
D.: Quali sono state le più grandi difficoltà pratiche che hai incontrato nel tuo lavoro? E come le hai superate?
R.: «A livello pratico, sicuramente la maggiore difficoltà è stata di conciliare la mia passione per il lavoro ‘sul terreno’ con la mia vita familiare. A un certo punto bisogna decidere dove si vuole vivere e crescere i propri figli. Per chi fa un lavoro di advocacy, il discorso è meno complicato perché spesso si può fare anche in sede, a Roma come a Kathmandu. Nel mio caso, ho cercato di accumulare quante più esperienze possibili prima di avere figli, ma conosco altri che hanno fatto il percorso esattamente opposto, ovvero hanno avuto figli molto giovani e poi sono partiti come cooperanti in età più avanzata.
L’altra grande sfida è stata quella di imparare a trovare le persone giuste con cui lavorare. Credo molto nel lavoro di squadra e ho imparato ad essere più selettiva col tempo. Alla fine della fiera, anche dietro le più importanti istituzioni ci sono sempre persone in carne ed ossa, con i loro pregi e difetti. L’importante è individuare talento e umanità… possibilmente nella stessa persona!»
D.: Essere donna come pensi abbia influito, se lo ha fatto, nella tua carriera?
R.: «Ha influito, eccome. Purtroppo neanche il NonProfit è immune da discriminazioni e pregiudizi contro le donne, soprattutto quando si tratta di accedere alle posizioni più ambite. La maternità complica ulteriormente le cose rallentando l’ascesa professionale, o almeno questa è stata la mia esperienza. Col tempo, però, credo che merito e determinazione finiscano per avere la meglio, portando i riconoscimenti sperati.
Quello che ancora manca, tuttavia, è un dibattito aperto ed onesto sulla discriminazione di genere nel NonProfit. In Italia, come in tanti altri paesi avanzati, le donne per prime preferiscono non parlarne per timore di sembrare inopportune e poco oggettive, visto che sono parte in causa. Per questo è fondamentale coinvolgere anche i colleghi maschi in un’opera di sensibilizzazione e sostegno dei diritti delle donne. Anche perché quando c’è discriminazione di genere, soffre tutta la famiglia, non solo la donna. E soffre l’organizzazione nel suo complesso.»
D.: Farida, il NonProfit è una realtà che si fonda sui sogni: i sogni di chi ci opera e i sogni di chi ha bisogno. Quali sono i tuoi sogni?
R.: «Domanda sempre affascinante! Al momento, ho pochi sogni ‘professionali’, ma sono molto ambiziosi. Sogno di poter dedicare molto più tempo al mio blog Kiliza, per renderlo più utile, soprattutto ai paesi donanti e riceventi aiuti. Vorrei anche continuare il lavoro che sto svolgendo attualmente come consulente, e cioè testare varie teorie di cambiamento sociale direttamente con le organizzazioni non governative di paesi come il Kenya o il Vietnam. Vorrei capire insieme a loro cosa funziona quando si portano avanti programmi di cittadinanza attiva e perché, come e grazie a cosa si produce un cambiamento effettivo e duraturo. E ovviamente, sogno di contribuire a rendere il Master in PMC il corso di studi migliore possibile del suo genere!»
D.: Rimaniamo quindi in tema! Recentemente hai accettato la Direzione del Master in PMC della Social Change School, che consigli vuoi dare ai ‘tuoi’ corsisti?
R.: «Stiamo parlando di corsisti altamente qualificati e determinati. Durante il corso dell’anno accademico che sta per cominciare riceveranno consigli e suggerimenti a volontà, per cui, per ora, mi attengo a pochi suggerimenti fondamentali.
Ai ‘miei’ studenti direi per prima cosa di chiedersi periodicamente PERCHÉ hanno scelto di seguire questo Master. La motivazione è il fattore chiave di successo professionale ed è essenziale capire cosa onestamente ci spinge a voler fare cooperazione, in sede o in un paese in via di sviluppo. Avere ben chiara la propria motivazione implica una buona conoscenza di sé, delle proprie ambizioni e dei propri limiti.
In secondo luogo, è opportuno che i corsisti PMC valutino i sacrifici che bisogna essere pronti a fare se si vuole lavorare nel mondo NonProfit. Alcuni sono già noti: remunerazione mediamente modesta, orari lunghi o anomali, condizioni di sicurezza ridotta per chi decide di lavorare in un paese in guerra. Altri rischi sono meno evidenti ma sempre da tenere a mente: per esempio il lasciarsi troppo coinvolgere emotivamente da situazioni di povertà estrema. Oppure, la lontananza protratta da famiglia e amici per chi parte all’estero. O ancora, stress e stanchezza che, se non gestiti prontamente, possono portare al classico ‘crollo’ psico-fisico.
L’altra faccia della medaglia – per fortuna – compensa largamente questi rischi. Lavorare nella cooperazione molto spesso genera un senso di profonda gratificazione. Ci si sente utili, necessari, talvolta persino importanti (con le dovute cautele, come ho spiegato prima). Il nostro lavoro acquista un significato sempre maggiore, soprattutto quando porta risultati positivi concreti. In molti casi, ho incontrato cooperanti o campaigners per i quali il lavoro era diventato unica ragione di vita. In un mondo in cui milioni di persone fanno un lavoro che odiano, è appassionante e meraviglioso potersi dedicare a tempo pieno a ciò in cui si crede.
In definitiva, non ci sono ricette magiche per riuscire nella cooperazione internazionale. E forse il bello è proprio questo – ognuno di noi contribuisce a modo suo, combinando ingredienti come spirito d’iniziativa, motivazione, creatività ed empatia. Oltre a queste doti, il Master in PMC richiederà due qualità fondamentali: la perseveranza, come la capacità di mettersi a studiare anche la domenica pomeriggio o il martedì sera, senza perdere di vista il traguardo finale; e la fiducia in se stessi, in quello che i ‘miei’ splendidi corsisti vorranno offrire al mondo. A tutti loro dico: credete in voi stessi e saprete trovare la vostra strada!»
di Guido Pacifici
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Fonte Foto: Farida Bena Twitter Account