Blog4Change: 8 Considerazioni nella lotta alla povertà

Andrea Stroppiana| 19 luglio 2016

“La mano che riceve sta sempre sotto a quella che dà.”

Tale proverbio africano non è valido soltanto per il Sud del mondo. Si applica perfettamente al principio di “esportazione” dei processi di cambiamento di cui l’Occidente è sempre stato fautore e maestro al di fuori e all’interno dei propri confini.

E’ coscienza comune che la lotta alla povertà riguardi tanto il Sud quanto il Nord del mondo, perché la povertà, intesa come difficoltà di accesso per gli individui ad una esistenza dignitosa rispetto ai propri parametri socio- culturali, si annida in ogni piega e recesso della convivenza umana.

Ricapitoliamo gli 8 principali concetti che costituiscono i pilastri di tale lotta e che concorrono, tra l’altro, alla struttura portante del Master in Project Management di ASVI Social Change.

Il territorio artefice del proprio sviluppo

Il primo elemento chiave riguarda il fatto che lo sviluppo, come risposta al concetto di povertà definito sopra, si riesca a conseguire con maggior probabilità di successo allorché il cambiamento nasca all’interno, e resti nelle mani, delle collettività che ne dovrebbero beneficiare. Quando un processo di cambiamento nasce al di fuori dal contesto che ne è direttamente interessato, rifletterà presumibilmente le percezioni dei suoi ideatori con una forte probabilità di restare al di fuori da molte dinamiche e relazioni del territorio che dovrebbe modificare. Un occhio esterno tende a cercare dove può gli elementi oggettivi su cui costruire il suo intervento e tale ricerca privilegia spesso fonti che invecchiano rapidissimamente o che si basano su conclusioni di altri occhi esterni che hanno operato in condizioni di analogia, ma non di identità. Conclusioni queste, che a volte sembrano essere contraddette dalla realtà dei comportamenti umani con cui ci si confronta. L’oggettività, nell’analisi dei contesti umani, è sovente un’idea spazzatura. Per questo, il riportare l’analisi all’interno della soggettività degli individui che costituiscono l’oggetto stesso del cambiamento, può riservare sorprese piacevolissime in termini di impegno, contributi e volontà di creare e mantenere nuovi equilibri.

L’interesse motore delle azioni umane

Il secondo pilastro è quello della identificazione dell’interesse come principale motore dei comportamenti umani. Laddove si fa leva sugli interessi di un territorio per ottenere le risorse  ed i contributi richiesti per il cambiamento si imbocca la strada più facile per il successo. Qualunque rete o accordo o richiesta che si giudica strumentale all’ottenimento di determinati benefici deve essere fondata sul soddisfacimento degli interessi, pur di natura assai variegata, dei soggetti coinvolti in un “do ut des” che non ammette eccezioni. Un partenariato in cui tutti i membri, contribuendo al successo del progetto soddisfano i propri interessi particolari, è un partenariato solido e l’impegno ed il contributo di ciascun membro sarà proporzionale al grado di soddisfacimento del proprio tornaconto che tale membro otterrà come effetto del proprio impegno.

I problemi, radici del cambiamento 

Il terzo concetto tocca la necessità che ogni intervento di sviluppo che si voglia identificare, parta dalla radiografia degli elementi di sofferenza e frustrazione degli individui che ne beneficeranno e non direttamente dalla valutazione di ciò che potrebbe essere utile per migliorare le loro condizioni. Il primo approccio, che si fonda sui problemi, tocca la sfera dell’emotività dell’individuo, ricerca le  sue frustrazioni senza, in un primo momento, volerne necessariamente conoscere né le cause né le soluzioni, il secondo approccio che si fonda sui bisogni e sulle risposte da dare al loro soddisfacimento, tocca,  fin dal primo momento, la sfera delle azioni/soluzioni che quasi sempre si basano sulle capacità, esperienze ed interessi delle entità esecutrici.

C’è allora una forte contrapposizione su due concetti solo apparentemente simili quello di problem e quello di need. Il primo chiede al territorio: “quali sono i tuoi problemi” (quali gli elementi di sofferenza), il secondo chiede “di cosa hai bisogno” (quali proposte di soluzione). E’ ovvio come queste due analisi tocchino snodi profondamente diversi in una apparente similitudine e i due approcci, partenti dallo stesso punto, assomiglino a due rette che ad ogni passo si allontanano una dall’altra.

Le azioni come risposta agli ostacoli esistenti

Un quarto principio tocca la definizione di ciò che si può fare (azioni) come passo successivo all’aver definito quali benefici si vogliono raggiungere  (obiettivi). Le azioni dovrebbero nascere da una ricerca degli ostacoli esistenti al momento dell’analisi unitamente alla valutazione di come scavalcarli o renderli innocui. L’analisi delle attività è, prima di tutto, un analisi sui perché. La domanda che può portare ad un processo sano di cambiamento riguarda il perché le situazioni negative presenti siano tali. Solo così sarà possibile individuare il come modificarle. Tutto ciò indipendentemente dai pacchetti di prodotti auspicati a priori, dalle abilità esistenti, dagli interessi degli attori e dal budget dei finanziatori. Elementi questi da valutare, adattare e modellare sul progetto in fieri, solo dopo aver identificato, con onestà intellettuale, le necessità reali. Laddove tali necessità non coincidano con gli interessi degli esecutori, si rende necessario un processo di adattamento e conciliazione fatto di compromessi e considerazioni politiche, economiche e di merito su cui si gioca una delle sfide più delicate del progetto e assume un ruolo centrale un partenariato in cui siano rappresentati tutti gli interessi contrapposti.

L’individuo, perno per il cambiamento

Una quinta considerazione tocca la complessità dell’individuo come fulcro per il cambiamento. Il suo intorno spaziotemporale, le sue predisposizioni e capacità, le sue convinzioni, valori e percezioni non sono un corollario decorativo, ma gli aspetti centrali da cui non si può prescindere affinché quello che si fa possa funzionare e creare un cambiamento i cui benefici durino nel tempo. E’ a causa della insufficiente considerazione di tali elementi che, molto spesso, l’esportazione dello sviluppo non funziona. Laddove cambiano gli individui anche all’interno della stessa area geografica, deve essere rimesso in discussione l’intero processo.

L’attenzione al rischio condizione per il successo

Il sesto aspetto tocca la sfera dell’imprevedibile. Il rischio di fallimento accompagna ogni processo di cambiamento. Nelle aree del vivere nelle quali gli elementi di rischio sono più forti, è là dove spesso maggiormente merita che qualcosa venga fatto. La presenza e l’intensità di potenziali fattori di rischio non è di per sé proporzionale alle probabilità di fallimento che un intervento può avere se, e solo se, esistono una attenzione e un controllo continui verso tali elementi sia in fase di gestazione dell’intervento, sia in quella di realizzazione. Il rischio che qualcosa vada storto, quando si vanno a modificare equilibri consolidati, è sempre presente. Identificare questi fattori costa fatica e monitorarli in modo continuativo è laborioso e a volte frustrante, ma è un aspetto totalmente imprescindibile quando si cerchi l’eccellenza ed il successo in un processo di cambiamento.

Una gestione fondata sul monitoraggio

Il settimo principio tocca la qualità della gestione nel senso della continua attenzione al miglioramento, alla correzione del tiro, all’adattamento ad una realtà che può cambiare ogni giorno. Laddove si cerca l’eccellenza si investe nel monitoraggio. Questo concetto su cui si è parlato tantissimo nell’ultima decade,  sembra spesso risultare un perfetto sconosciuto nei suoi elementi portanti. Gestire un progetto in modo sano significa verificarne continuamente la capacità di realizzare le attività nel miglior modo possibile e di produrre, tramite queste, i benefici previsti per i beneficiari. A molti operatori accade di dare più importanza al mezzo piuttosto che al fine ovvero di seguire scrupolosamente le attività e la loro aderenza alle previsioni, con molto meno impegno a verificare se tali strumenti servano a ciò per cui sono stati messi in atto. Laddove lo scrupolo sull’assunzione delle medicine sia più importante della guarigione dalla malattia si  sta navigando con le vele, ma senza timone.

Il mantenimento dei benefici nel tempo

L’ottavo ed ultimo aspetto riguarda la sostenibilità che va misurata sugli obiettivi rigorosamente intesi come benefici e non sulle attività. Ciò che deve essere sostenibile è il beneficio che il progetto-programma crea per i beneficiari finali e non ciò che il progetto realizza né i prodotti/output che prevede. Tali output devono durare nel tempo solo fintanto che siano in grado di dare un servizio reale; non servono in quanto tali se non come creatori di benefici fruibili e solo come tali è importante che durino. La sostenibilità entra in gioco fin dalla fase di gestazione di un intervento e lo accompagna durante e dopo il suo termine. Non c’è sostenibilità senza ownership (appropriazione) da parte della comunità’ e dei responsabili del territorio; la ownership deve essere continuamente innaffiata e concimata per non morire e tale nutrimento va previsto fin dai primi vagiti del progetto in divenire e va garantito oltre il suo presunto termine. In questa accezione, dunque, esiste una identità, e non una semplice vicinanza concettuale, tra sostenibilità ed appropriazione perché solo ciò che le persone vogliono veramente, è qualcosa che riescono a difendere e preservare nel tempo con le unghie e coi denti anche in totale mancanza di risorse finanziarie, ed è ciò che si difende strenuamente e per cui ci si spende che alla fine si riesce a sentire parte di sé.

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