Dhebora Mirabelli | 4 Novembre 2014
Nel periodo che va dalla tradizionale festa delle luci birmana (6, 7 e 8 ottobre 2014) e quella della luna piena (6 novembre 2014) il mio albero dei desideri in Myanmar si tinge di *thanaka per rivitalizzare e rinfrescare i pensieri in festa.
Un viaggio importante, capace di sprigionare nell’aria idee di business sociale che potrebbero condurre gli imprenditori italiani più impavidi della crisi economica che sta conquistando il nostro Paese alla Corporate Social Opportunity (CSO).
Un safari pieno di umanità che mi ha condotto tra i villaggi di Yangon e permesso di soddisfare il mio spirito di esplorazione per ritrovare la felicità alimentata dalla socializzazione, come ci spiega nel suo ultimo libro, “La realtà è più importante dell’idea. Per una nuova corresponsabilità globale”, il Prof. Sandro Calvani.
Dalla gioia di chi opera e fa impresa sapientemente tra la sua gente con risorse e mezzi limitati in suo possesso a chi organizza ospedali del territorio dal nulla per i malati di HIV/AIDS e per i bambini loro orfani il tempo trascorso in quel Paese così affascinante mi ha regalato continue scoperte per sperimentare e meglio comprendere la ricercata felicità.
E mentre tanto nel nostro Paese discutiamo sul rischio che corriamo con l’approvazione della riforma sull’art. 18 mi chiedo se norme e regole date frenerebbero mai gli imprenditori dei Paesi in via di sviluppo alla ricerca continua della felicità e verso gli investimenti sul proprio capitale umano.
Quale il loro deterrente ad operare determinando beneficio anche per la loro comunità?
Laddove il rapporto impresa – comunità è un insieme naturale/sociale è difficile trovare interessi e obiettivi di imprenditori e lavoratori così divergenti come in occidente.
La differenza è nelle distanze verticali che esistono all’interno della scalata economica e sociale.
In Myanmar non si vedono cime isolate così aggressive e numerose come nel nostro Paese né muri o steccati tra datori di lavoro e lavoratori. I piccoli imprenditori sono immensamente grandi nel perimetro del loro villaggio e i lavoratori ambiziosi di imparare un mestiere e passare presto anche dall’altra parte. E noi?
Noi riportiamo tutto sul campo di battaglia e se il piccolo imprenditore italiano va in crisi allora diventa un pericolo una minaccia sociale … e se invece il Governo lo trasformasse in opportunità?
Sono certa che un buon lavoratore a rischio di licenziamento per il fallimento dell’impresa potrebbe avere molte cose da dire e molto valore da apportare. Senza dubbio sarebbe disponibile a barattare l’umiliante status di cassa-integrato con quello di collaboratore/socio dell’impresa da salvare.
Non sarebbe più efficace ragionare in termini di associazionismo e risorse da reclutare piuttosto che di costi da abbattere e licenziamento di massa?
E se il mondano TFR di cui si parla tanto in questi mesi perché si è messo in testa di fare quello che gli pare e quindi di diventare una possibile minaccia sia per chi lo da in anticipo che chi lo riceve … non diventasse più operoso e collaborativo e si trasformasse in partecipazione al capitale dell’impresa? Quale sfida più socialmente esaltante che contribuire a riossigenare in periodi di crisi la propria “famiglia professionale”, l’impresa, con i propri risparmi? Quale sfida più motivante che quella di diventare corresponsabili di una rinascita e rivitalizzazione imprenditoriale del proprio sapere?
Non si accorcerebbero forse le distanze verso quella scalata economica che ogni operaio di successo dovrebbe essere messo in grado di fare in una civiltà democratica?
Niente banche e interessi usurai tra impresa e scarsa liquidità per nuovi investimenti ma risorse materiali ed immateriali di impegno, volontà e creatività dei lavoratori membri di un nuovo concetto di famiglia imprenditoriale allargata.
Come i matrimoni tra omosessuali non si potrebbe iniziare a ragionare al matrimonio tra coloro che hanno un isomorfismo funzionale e connaturale dato dall’obiettivo economico comune nel mercato e settore in cui operano lavoratori ed imprenditori?
Dopo la strategia dell’oceano azzurro come strumento per accumulare vantaggio competitivo potremmo abbracciare quella che mi piace rinominare “orizzonte blu” che avvicina gli operai e i lavoratori alla scalata sociale superando steccati e muri troppo spesso eretti con il supporto dei sindacati. Coloro che dovrebbero difenderci aiutandoci a diventare più consapevoli del nostro apporto valoriale nel lavoro e nel contesto in cui operiamo rendendoci lavoratori e cittadini più responsabili verso noi stessi e gli altri e non solo renderci più arrabbiati e meno felici.
… Alla ricerca della felicità nel mio Paese mi sono così addentrata in ragionamenti un po’ forse troppo pretenziosi per la cultura occidentale meno propensa verso il senso della comunità di quella asiatica.
* Pianta della famiglia delle acacie con la quale le donne birmane si tingono il volto per ritrovare refrigerio nelle giornate riscaldate da un sole a volte invadente.