L’arte filantropica

Stefano Malfatti | 02 Settembre 2014

Parto da un’ottima lettura fatta in questi giorni ovvero dall’articolo Nonprofit, “London stories”: l’uomo che salvò i bambini, dal nostro Marco Crescenzi attraverso il quale, con una sempre utile panoramica storico- culturale, riporta l’attenzione sulla figura del filantropo e – più in generale – sulla filantropia.
Nel corso di questi ultimi mesi mi sono avventurato a scoprire un po’ dei mondi del fundraising lontani dal mio ambito di lavoro (quello socio- assistenziale e sanitario), pronto a raccoglierne gli spunti migliori per poterli traslare anche nel mio universo.

Devo purtroppo però sottolineare che troppo spesso idee, progettualità e attività, vengono orientate o addirittura declinate non tanto per assecondare la vera mission della organizzazione, quanto per intercettare l’interesse di qualcuno (nella maggior parte dei casi un’azienda) che detta le regole per fare in modo che possano emergere temi e toni affini al loro business o ad un loro specifico interesse.

Ho sentito di musei che – dimentichi della loro caratteristica peculiare – hanno dedicato padiglioni e mostre alla storia dell’orologio o delle stoviglie pur di intercettare risorse che provenivano da mondi “affini” a queste tematiche: ho sentito di reparti che hanno intrapreso progetti su malattie o disturbi su cui compagnie assicurative (loro sponsor) hanno avviato la vendita di particolari polizze; e così via senza voler annoiare con liste di esempi più o meno caratteristici…
Non che io voglia fare il purista o non conosca quali siano i meccanismi di “reciproco beneficio” su cui spesso si imbastisce un rapporto del genere (o de genere?).
Dico semplicemente che pare perdersi di vista il valore della filantropia e di quanto lo spirito filantropico possa e debba riaffacciarsi a molte delle dinamiche di finanziamento del settore nonprofit.

Probabilmente la contingenza storica e socio-economica non creano più figure e slanci come quelli di Thomas Coram nella Londra del ‘700 o come quella di Don Carlo Gnocchi nel dopoguerra dei “mutilatini”; è doveroso però ricordare e ridare slancio allo spirito che anima e guida la vera e disinteressata filantropia.
Tra i tanti ci sono tre diversi approcci allo slancio filantropico, ognuno dei quali realizza qualcosa di diverso e il riconoscerne uno stile differente risulta fondamentale per il suo successo e la sua efficacia.

1. Il dono in beneficienza con il quale si cerca di “comprare” o di sostenere l’esecuzione vera e propria di un programma o di un’attività senza scopo di lucro che darà i suoi frutti in favore di beneficiari precisi e prestabiliti. Così come tracciato in un ottimo articolo di George Overholser ( Building is not buying ) si tratta di un vero e proprio atteggiamento da “acquirente” in cui il donatore (filantropo) è interessato principalmente alla realizzazione di quanto previsto e in proporzione alla sua donazione e si preoccupa poco dell’organizzazione stessa che la promuove.
2. L’investimento filantropico mira a fornire risorse alle organizzazioni nonprofit in modo da implementare e arricchire le loro capacità di eseguire determinati programmi o di realizzare le loro attività core, indicate direttamente nella loro mission. E’ il classico atteggiamento da investitore, da “costruttore” (builder) così come segnalato nell’articolo sopra citato. Così l’investitore filantropo, come l’investitore profit, concentra i suoi sforzi principalmente sulla crescita di lungo periodo e punta a migliorare la capacità dell’organizzazione di garantire i propri programmi, sempre in proporzione all’ammontare dei propri investimenti.
3. La filantropia strategica si propone invece di sostenere ed acquistare beni e servizi del mondo nonprofit in modo da allinearsi con una teoria del cambiamento definita dal filantropo stesso, oppure di investire nella crescita di organizzazioni la cui opera è funzionale al successo di questa loro stessa teoria. Quindi, nei primi due casi sopra citati i i filantropi forniscono risorse ad un’organizzazione nonprofit in modo che possa perseguire una teoria del cambiamento, i filantropi strategici sono invece interessati principalmente alla propria teoria del cambiamento. I primi due dialogano e negoziano con le organizzazioni ma non cercano di essere i veri e propri agenti del cambiamento. Il filantropo strategico – così come le organizzazioni nonprofit vere e proprie – cercano di essere agenti del cambiamento: le nonprofit eseguono i programmi direttamente, mentre questo tipo di filantropo affida l’esecuzione di questi programmi. Così come l’azienda profit esternalizza la produzione ma possiede il prodotto, così il filantropo strategico possiede i programmi nonostante la loro esternalizzazione.

Tutti e tre gli approcci sono assolutamente validi.

Senza benefattori o filantropi, il principale fornitore di entrate per le organizzazioni nonprofit sarebbe perso (individuo o azienda che sia). Senza di loro le organizzazioni non profit non avrebbero accesso al capitale di cui hanno bisogno per crescere e per realizzare le loro imprese. Il filantropo strategico è necessario per creare soluzioni molteplici a problemi complessi che sono oltre la portata di ogni singola organizzazione (che spesso proliferano per sanare lo stesso problema).

Ora, niente di tutto questo è per dire che ogni donatore deve scegliere uno ed un solo approccio. Un donatore può impegnarsi in investimenti filantropici in determinate circostanze e in beneficenza in altre. Tuttavia, è importante che i donatori, consci del loro spirito filantropico, siano consapevoli del tipo di approccio verso il quale si stanno orientando, in modo che possano agire al meglio.

Il punto non è quello di mantenere la purezza di approccio, ma di stabilire un quadro di riferimento. Per esempio per un donatore non ha senso preoccuparsi di quanto venga pagato il direttore di una nonprofit della quale si finanziano le attività, più di quanto, ad esempio, gli acquirenti di maglioni Benetton non debbano considerare lo stipendio del CEO di Benetton. Egli dovrebbe semplicemente considerare la realizzazione del programma in ordine a quanto ha donato e non le caratteristiche organizzative della nonprofit.

Dare lustro alla filantropia e allo spirito che la guida in maniera moderna ed efficace è importante perché ci permette di evitare dibattiti che sostanzialmente derivano da una mancanza di consapevolezza. Al centro c’è sempre l’uomo con i suoi bisogni (sociali, di salute, culturali, ambientali, ecc…).
Le mie definizioni non sono sicuramente esaustive e ho certamente trascurato elementi importanti di questo puzzle, mischiandone altri. Ma la mia speranza è che si possa e si debba iniziare a delineare ruoli e responsabilità dei vari attori che compongono il settore sociale.

Il nonprofit è un mondo disordinato, e nessun modello credo possa perfettamente rappresentarlo o accompagnarlo. Ma con poche e coerenti strutture di riferimento, possiamo avere una consapevolezza più forte su come praticare al meglio l’arte filantropica, e poterla avvicinare – come faceva Cicerone – non solo alla generosità che la anima, ma anche e soprattutto alla sensibilità che la guida.
Dimenticandoci, se vogliamo, orologi, stoviglie o polizze assicurative.

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