Social innovation: diversamente abili ?

Sandro Calvani | 31 Ottobre 2013

Social innovation: diversamente abili ?Stiamo pestando l’acqua nel mortaio; un’acciuga non diventerà mai uno sgombro”. In quel caldo pomeriggio di Agosto del 1972 il maresciallo medico del distretto militare di Genova esprimeva così in modo chiaro, sintetico e definitivo la sua frustrazione per essere costretto dalle regole di arruolamento ad una terza visita medica al sottoscritto: troppo magro e troppo alto per passare l’esame di idoneità alla leva militare che richiedeva una misura del torace pari ad un centimetro in più della metà dell’altezza. Bocciato per il terzo anno consecutivo significava scartato in via definitiva. Qualche giorno dopo ricevevo puntualissima un’elegante lettera del comandante del distretto militare che mi porgeva le scuse dello Stato nel comunicarmi che non ero risultato una risorsa umana adatta alla difesa in armi della Repubblica. A titolo consolatorio la lettera, che mi classificava come “riformato alla visita di leva perchè fisicamente non idoneo”, mi incoraggiava a cercare altri modi per prestare servizio alla collettività. Colsi l’invito e divenni volontario della nascente Caritas genovese e autista con patentino per l’alta velocità delle ambulanze della locale Croce Verde.

Che piaccia o no, le forze armate avevano allora un modo chiaro e trasparente per misurare le risorse umane desiderate: genere maschile, idoneità fisica, compresi standards di vista, udito e  misura del torace. Non erano previsti esami psico-attitudinali o test di intelligenza, a parte alcune prove elementari. Tempo massimo di “attesa” per migliorare ed entrare negli standards: tre anni dopo il 18esimo. Chi non otteneva in tempi definiti l’idoneità a quel servizio poteva andare a fare dell’altro. La storia dei quarant’anni seguenti -non solo in Italia- ha dimostrato che altri settori del servizio pubblico o dei “civil servants” addetti a massimizzare la qualità della governance, della vita delle società civili e dell’innovazione hanno invece utilizzato troppo spesso criteri di selezione e misurazione delle attitudini meno trasparenti delle forze armate italiane, fatto che ha provocato decenni di acqua pestata nel mortaio, cioè di sforzi inutili che non hanno ottenuto nemmeno un cucchiaio di buon pesto genovese.

Ma davvero il capitale umano si può “misurare” e pertanto comparare a livello nazionale e internazionale? Per oltre cinquant’anni e fino ad oggi il metodo più diffuso sono state le caratteristiche psico-metriche delle persone, chiamate tipologie MBTI dalle studiose Myers Briggs che le pubblicarono tra il 1956 ed il 1962: http://www.myersbriggs.org/my-mbti-personality-type/mbti-basics/. Le 16 tipologie principali hanno poi visto decine di variazioni proposte da altri ricercatori. MBTI è rimasto però il sistema più usato al mondo e si stima che centinaia di milioni di persone lo abbiano applicato per conoscere se stessi e gli altri. Nella mia esperienza recente di gestione di risorse umane ho però osservato che due volte su tre l’intervistato non conosce la propria tipologia MBTI, nè conosce l’esistenza del sistema. Molti sedicenti sgombri non sanno di essere delle acciughe.

Tutti sappiamo che in termini psico-metrici anche le acciughe possono divenire sgombri, cioè si può lavorare sulla propria personalità e cambiarla. Allo stesso modo le imprese, le società civili e le istituzioni giocano un ruolo importante nel migliorare le caratteristiche del capitale umano della propria comunità di persone.

La globalizzazione ha sbattuto in faccia all’umanità intera il fatto evidente che la chiave per il futuro di qualsiasi paese e qualsiasi istituzione risiede nel talento, nelle competenze e nelle capacità della sua gente”. Klaus Schwab (ingegnere economista tedesco, Chairman del World Economic Forum) ha usato questa stessa frase come incipit del rapporto mondiale sul capitale umano 2013 appena pubblicato:http://reports.weforum.org/human-capital-index-2013/

Il rapporto mondiale suggerisce e dimostra in modo credibile che per l’individuo, così come per le società e le economie in generale, investire per massimizzare la qualità del capitale umano è fondamentale, ancor di più nel contesto odierno delle dinamiche di popolazione e di risorse finanziarie limitate. In parole povere se uno sgombro che sa di esserlo si sente trattato o pagato da acciuga, presto o tardi trova il modo per andarsene tra gli sgombri e piantare in asso le acciughe, nella loro arbanella, sia essa un’impresa o una nazione.

Quattro gruppi di indicatori sono usati nell’indice di qualità del capitale umano per comparare e “classificare” 112 paesi del mondo:  Salute e Benessere contiene indicatori relativi allo stato fisico e mentale della popolazione dall’infanzia all’età adulta;  Educazione contiene indicatori relativi ad aspetti quantitativi e qualitativi dell’educazione ai livelli primario, secondario e terziario e informazioni sulla forza lavoro attuale e quella prevedibile nel futuro; Occupazione e forza lavoro quantifica l’ esperienza, il talento, la conoscenza e la formazione nella popolazione in età lavorativa di ogni nazione; infine l’Ambiente abilitante valuta il quadro legale e politico, la governance, le infrastrutture e altri fattori che permettono al capitale umano di crescere e dare il meglio.

L’indice contiene 51 indicatori in totale, distribuiti nei quattro gruppi, con 12 indicatori per l’educazione, 14 per salute e benessere, 16 nel mondo del lavoro e 9 per l’ambiente abilitante.

Tra i paesi del G8 solo due, Regno Unito e Germania, arrivano tra i primi otto in questa classifica mondiale del capitale umano, fatto che permette di ipotizzare che anche la composizione del G8 potrebbe cambiare presto. Svizzera, Finlandia e Singapore sono i primi tre. Tre paesi asiatici sono davanti agli Stati Uniti che arrivano 16esimi. L’Italia arriva 37esima, subito dopo il Cile e oltre dieci posizioni dopo Barbados, penalizzata soprattutto da una 75esima posizione in qualità dell’occupazione e forza lavoro, una 40esima posizione in qualità dell’educazione, un posto 39 in quanto ad ambiente abilitante.

Innovazione sociale vuol dire dunque smetterla di pestare l’acqua nel mortaio, non aspettare oltre che le acciughe crescano e competano in un mondo di sgombri e soprattutto trovare una buona palestra per metter su un gran torace di occupazione, educazione ed ambiente abilitante che sia almeno un centimetro in più della metà dell’altezza della nostra invidiabile storia e cultura di nazione e di impresa. Visti i tempi, suggerisco di farlo a sirene spiegate, ad alta velocità, passando anche con il rosso dove i semafori sono addormentati.

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