Poveri perché esclusi. Il rimedio sta nelle risorse, nelle giuste relazioni, nell’essere intraprendenti.

Sandro Calvani | 25 Novembre 2014

Mentre uscivo dagli uffici della Fondazione dove lavoro ho incontrato una mia collega, una volontaria inglese, e ci siamo avviati insieme verso la metropolitana. Con lei c’era anche Siri, la sua bambina adottata di circa cinque anni. Subito fuori della stazione della metro abbiamo visto una bambina cambogiana sui tre anni che mendicava stando in ginocchio e con la testa a terra insieme a un’altra ragazza, forse sua mamma, anche lei nella stessa posizione. Davanti a loro un bicchiere di carta con pochi centesimi. Ambedue per un attimo guardavano i passanti per poi rimettere subito la testa e gli occhi verso il basso.
Siri ha chiesto alla mamma cosa stavano facendo quelle due e di cosa avevano paura. La mamma, che è un’operatrice sociale, ha risposto che erano due povere che mendicavano. Ma Siri, nell’età dei mille perché, ha insistito: “Perché sono povere?”. La mamma ha cercato la spiegazione più semplice possibile: “Perché non hanno soldi”. Siri ha risposto: “Non ne ho neanch’io, sono povera anch’io?”. La mamma le ha spiegato: “No, tu non sei povera, essere poveri vuol dire non aver qualcuno che si prende cura”. Poi, un po’ spazientita dalla serie di domande che stava per diventare un esame di sociologia elementare, se l’è cavata in modo brillante: “Sandro, perché non le rispondi tu che sei professore di lotta alla povertà?”. Purtroppo non c’era più tempo a disposizione perché il loro treno stava arrivando in stazione. Allora ho promesso a Siri di spiegarglielo alla prossima occasione.
Andando a casa ho raccolto le idee per essere preparato a qualche altra doz¬zina di perché di Siri che potrebbero capitarmi molto presto. Ho notato che Siri aveva già colto da sola nella sua domanda una parte importante della risposta ai suoi perché, riconoscendo il significato dello sguardo della bambina mendicante. Siri si è accorta che la bambina mendicante aveva paura. La parola povero (poor in inglese) viene dal latino pauper, che discende dal greco ptôchòs, che ha la stessa radice del verbo piegare, ptôcheýêin, e del sostantivo ptôx che significa paura.
Chi ha paura è ripiegato su stesso per difendersi, o per vergogna (in latino la parola pudicus ha la stessa origine) o per mostrare sottomissione. Anche in italiano il verbo pitoccare, anche se ormai poco usato, significa domandare l’elemosina. Mi pare corretta la risposta della mamma alle domande di Siri: in realtà la vera povertà, intesa come indigenza o esclusione, si riferisce alla mancanza di una comunità capace di prendersi cura. Il povero non appartenendo ad una communitas – un insieme di persone con pari diritti – non ha accesso e non può partecipare ai beni e servizi di cui gli altri usufruiscono.
Anche la sociologia moderna (secondo il metodo detto RAMSEP dalla sigla in inglese che significa metodo di valutazione rapida dell’esclusione sociale e della povertà) definisce le povertà attraverso tre dimensioni principali: le risorse, cioè il grado di deprivazione materiale, e la gravità del mancato accesso ai beni e ai servizi; la socialità si riferisce alle relazioni dei poveri con altre persone, gruppi o istituzioni; l’agire si riferisce alla volontà e capacità del povero di uscire di propria iniziativa dallo stato in cui si trova. La combinazione delle tre dimensioni permette di individuare tre livelli di gravità: povertà intermittente, povertà media, povertà estrema.
Secondo il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz la disuguaglianza crescente nel mondo intero dovrebbe far paura anche a chi diventa sempre più ricco in una economia sregolata e in un mercato globalizzato non governato. Nel suo libro più recente (Bruce Greenwald e Joseph Stiglitz, Creating a Learning Society: A New Approach to Growth, Development, and Social Progress. Columbia University Press, 2014) Stiglitz indica come soluzione una società civile più responsabile e uno sviluppo socioeconomico più regolato, in pratica imparando dagli errori e dalle esperienze di questo tempo di transizione. Stiglitz aggiunge che è chiedendoci i perché giusti che possiamo uscire tutti dalle paure e dalle crisi moderne che ci tengono ripiegati sulle forme economiche del passato.
Vorrei che i perché a raffica di Siri fossero infettivi in modo acuto per gli adulti, quelli che non se li chiedono più, quelli che pensano di sapere già tutto e hanno paura di imparare l’ABC della giustizia.

Torna in alto