Lo start up nel fundrasing: è poi così difficile, è poi cosi facile?

Massimo Pesci | 18 Novembre 2014

A vedere quanti nuovi fundraiser ci sono ogni giorno si direbbe che è facile. A vedere quante organizzazioni anche con progetti e missioni più che valide poi non ce la fanno si direbbe che è difficile. A sentire quanto si parla del fundraising come la nuova linfa del welfare state dovrebbe essere facile. A vedere poi l’impatto sociale reale generato da molte iniziative si direbbe che è difficile. Insomma più si guarda e meno si hanno certezze di risposta.
Per farci un’ idea vera poi innanzitutto dovremmo capirci su cosa è esattamente il fundraising, su quali siano le differenze tra una campagna di raccolta fondi operata da una impresa sociale e quella messa in campo da una organizzazione. Argomento questo che da solo ci porterebbe via l’intero post. Volendo e dovendo semplificare sottolineo due grandi differenze “concettuali” da tener presente. Devo iniziare raccogliere fondi perché ho un “piano di business” ben definito da rispettare o raccolgo fondi con l’idea che “tanto più raccolgo e tanto meglio è”?
Questo secondo approccio che sembra a prima vista banale, semplificato, ingenuo, non professionale (poco diffuso direste?), è in realtà molto più utilizzato di quel che si pensi. E’ un “morbo”, quello dell’”intanto partiamo” che si cela all’interno di organizzazioni anche complesse. Anzi in questo momento di crisi molte prestigiose ONP che si trovano per vari motivi a corto di finanziamenti istituzionali, l’approccio è “mettiamo a budget un 20% dal fundraising, poi vediamo” . Per non parlare di molte start up vere, che non hanno neanche un “capitale organizzativo” da mettere sul piatto. Bene. Allora è facile o difficile?
Direi che la domanda giusta è : “E’ un processo controllabile o incontrollabile”? Controllabile non fa rima con facile ma gli è parente. Se ho un solido piano di business pluriennale di fundraising allora posso controllare la mia start up, e forse diventa facile. Si perché in questo caso il benchmarking c’è. Una ricerca (delle molte disponibili) ci dice, dati alla mano raccolti sul campo, che nelle imprese sociali la strada vincente è bilanciare adeguatamente la crescita di cinque “dimensioni”: clienti, prodotti, team, modello di business, entrate.
La crescita prematura di uno di questi elementi rispetto agli altri è quasi sempre la ragione del fallimento di una start up.
Per il fundrasing è lo stesso. Una crescita non controllata (non si tratta di dimensioni ma di controllo) del numero dei donatori attesi, delle iniziative di fundraising attivate, della squadra, delle ambizioni di business o delle aspettative di raccolta spesso causa difficoltà enormi, a volte irrisolvibili se è vero che gli errori all’inizio di ogni pianificazione causano danni esponenziali. Infatti se immaginiamo il percorso di una start up secondo le fasi successive di: scoperta del problema; proposta di soluzione; conferma da parte degli stakeholder; raffinazione del modello; rapido e controllato avvio di crescita (anche del fundraising), acquisizione della sostenibilità; vediamo come i danni maggiori li provochino crescite eccessive nelle stime di problemi e soluzioni. Ed anche quando non si soccombe agli errori negli “early stage” si spende comunque di più in risorse, si fa più fatica, insomma il fundraising arranca.
Solo una start up su 12 sopravvive, nel business non sociale, mentre nel mondo non profit il volontariato, i salari più bassi della media, il bootstrapping con risorse proprie, il credere in quel che si fa ed un “prodotto” evergreen come il bene comune o una causa sociale alzano sicuramente, anche se non di molto, la media dei successi (vivacchiare non è un successo).

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