#Working4HRM- Performance Management: Lavorare e valutare le risorse umane nelle ONG

Zeno Filippi| HRM Amnesty International| 10 maggio 2016

La grande maggioranza delle persone che lavorano nelle ONG e nelle organizzazioni non profit in generale si dichiara insoddisfatta delle modalità con cui viene gestito il processo di valutazione e negli ultimi mesi si è sviluppato un intenso dibattito tra gli addetti ai lavori. Proviamo a vederne i punti più importanti ricorrendo all’ultima ricerca di Top Employer “Performance Management”.

La ricerca è stata fatta su circa 600 organizzazioni in 96 Paesi e con un campione di circa 3.000 impiegati. Insieme ad altri dati più o meno interessanti lo studio mette in evidenza almeno tre trend di sviluppo della gestione della performance che mi sembra trovino conferma nella vita quotidiana:

  1. Cultura organizzativa della performance. Sofisticati processi digitali di valutazione delle persone sembrano essere necessari ma non sufficienti. Lavorare sul feedback è un buon punto di partenza per lo sviluppo di una cultura di questo tipo: formiamo il Personale sulla gestione del feedback?
  1. Agilità e trasparenza negli obiettivi. Il 91% dei partecipanti alla ricerca allinea costantemente gli obiettivi al contesto durante l’anno e nell’87% delle organizzazioni del campione gli obiettivi del responsabile sono noti allo staff. I nostri processi di valutazione sono trasparenti e flessibili?
  1. Coaching e accountability. La correlazione tra l’introduzione di un nuovo strumento di valutazione della performance e l’aumento effettivo della performance lavorativa non è affatto ovvia. Sviluppare i responsabili con competenze di coaching può essere un buon inizio per l’implementazione di un clima di fiducia, accountability e relazioni funzionali allo scopo. Decidiamo di formare i responsabili al coaching?

Queste le principali riflessioni in atto. Il dibattito però sembra suggerire un principio vecchio come il mondo: la qualità di ogni strumento è data dalla qualità dell’essere umano che lo utilizza. Se i responsabili sono adeguati e sanno far bene il loro mestiere potrebbero aver bisogno anche solo di carta e penna. Ciò che davvero fa la differenza è la loro capacità di gestire e sviluppare le persone in armonia con gli obiettivi.

La relazione, dunque, prima di tutto. Propongo quindi una sorta di tassonomia ideata dal professor Massimo Bellotto, professore ordinario di Psicologia delle Organizzazioni dell’Università degli studi di Verona che descrive, in forma parzialmente scherzosa, tre frequenti stili di conduzione di un colloquio di feedback. Si può così evitare di incorrere nei comportamenti individuati e sorridere dei propri errori:

  1. Il dogmatico. Confonde i dati con la realtà, per lui le cose “sono” così, ne è certo (e chi non accetta la verità è in errore o in malafede), ignora che ciò che i dati forniscono sono solo rappresentazioni della realtà, mappe utili per descrivere, modi efficaci di porre e risolvere i problemi. Si riconosce dall’uso costante del verbo “essere” al posto di espressioni quali “appare, risulta, sembra”.
  1. Il postino. Questa posizione, tendenzialmente asettica e burocratica, consente a chi la assume di lavarsene le mani (tipo Ponzio Pilato) rispetto alle valutazioni emerse e rispetto all’uso che l’interessato può farne. I dati sono quindi un qualcosa di estraneo a sé, da riferire ad un soggetto considerato egli stesso un estraneo, un destinatario.
  1. Lo psicantropo. È un tipo che, disponendo di conoscenze psicologiche, si trasforma nello stereotipo dello psicologo selvaggio. I dati gli servono allora per confermare quello che già sapeva, per avallare i suoi pregiudizi e per farne occasione di interpretazioni arbitrarie. Adotta linguaggi tratti dalla psicologia clinica, dalla sociologia e dal senso comune per dire “te l’avevo detto”.

 

 

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