Happymeters: i termometri e le mappe della felicità

Sandro Calvani| 6 Ottobre 2015

“E vissero a lungo felici e contenti” è la conclusione più comune delle favole per i bambini in molte parti del mondo. Gli adulti invece dimenticano spesso che l’eterna aspirazione umana alla felicità è stata anche la causa principale di molte rivoluzioni politiche, o la scintilla di guerre, e quasi sempre il motore delle migrazioni. Quasi tutte le religioni promettono la felicità in una vita futura a chi non la trova in quella presente.  La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 1776 riconosce la ricerca della felicità come uno dei tre diritti inalienabili dell’essere umano, insieme alla vita e alla libertà. Tanti cercatori della felicità sono stati disposti a perdere sia la vita che la libertà nel tentativo di essere felici. Duecentoquaranta anni dopo il mondo intero si arrovella in innovazioni sociali, politiche ed economiche che cercano di diminuire le cause dell’infelicità e consolidare allo stesso tempo sistemi di convivenza e di governance che usino la felicità, non solo come aspirazione o obiettivo, ma anche come vero volano e acceleratore positivo della trasformazione della storia contemporanea.

Ma molto, moltissimo, dipende da cosa ognuno ha in testa o nel cuore come proprio immaginario della felicità. I film di Hollywood propongono un modello univoco che forse è comune a chi vive sulla costa occidentale degli Stati Uniti. E così una colossale rapina o la strage di decine di cattivi si giustificano se poi alla fine i protagonisti riescono a vivere felici e contenti e con tanti soldi in un’isola caraibica. Nella realtà degli oltre cento paesi che ho visitato praticamente nessuno aspira a quel tipo di felicità avulsa dalla propria realtà.

In Asia per esempio –e sto parlando di più gente di tutto il resto del mondo messo insieme- la felicità ha un connotato intrinsecamente collettivo sia come bene comune che in quanto alle forme di collaborazione che vanno realizzate per costruire una felicità sostenibile e diffusa. Il Re del Bhutan fu il primo negli anni ’90 a proporre metodi di misurazione della felicità nazionale per misurare il progresso al posto dei tradizionali tassi di prodotto nazionale o di reddito pro-capite. Molti governi asiatici hanno seguito l’esempio ed incoraggiato sia la ricerca dei modi più efficaci per massimizzare la felicità dei cittadini, sia delle possibili forme di organizzazione istituzionale e della società civile che migliorano la qualità della vita. Per confrontare le migliori pratiche si sono moltiplicati gli indicatori e gli indici che permettono di monitorare i risultati ottenuti.

Dopo il primo e più innovativo GNHI, Gross National Happiness Index, sviluppato dal governo del Bhutan e dall’Earth Institute della Columbia University, sono comparsi numerosi altri Happymeters “termometri di felicità nazionale”, come l’HPI, Happy Planet Index, creato dalla New Economics Foundation e il YBLI, Your Better Life Index, sviluppato dall’OECD, Organizzazione per lo Cooperazione Economica e lo Sviluppo. Usando indicatori simili, il Sustainable Development Solutions Network (SDSN) pubblica ogni anno il suo rapporto mondiale sulla felicità.  In alcuni di questi studi sul presente e il futuro della felicità si ipotizza anche che essa potrebbe ridisegnare le società del futuro, le Costituzioni nazionali e federali, i trattati internazionali, le strutture delle imprese e delle borse di valori. Tra queste analisi c’è per esempio quella di Shawn Reigsecker che ipotizza la felicità come nuovo ROI Return on Investment, sia delle imprese che delle istituzioni pubbliche. Tanto che la nota rivista economico-finanziaria Forbes ha cominciato a monitorare quali imprese creano più felicità tra i propri dipendenti e azionisti.

I primi indici e classifiche di felicità dei paesi si basavano sulle medie nazionali di tutti gli indicatori utilizzati e quindi soffrivano dello stesso limite degli indici economici come il vecchio “reddito pro-capite” che dividendo il reddito nazionale per il numero di abitanti nasconde sia il reddito dei più poveri che quello dei più ricchi, cioè cerca di far sparire la disuguaglianza. Ma molti ricercatori socio-economici osservano che la disuguaglianza è spesso un sintomo dello stato di salute della giustizia e della pace interna di una nazione. Per questo i nuovi indici di felicità tengono anche conto dell’inequità sociale, che genera sempre tensioni ed infelicità nazionale.

Per oltre un secolo l’indice più conosciuto di inequità sociale è stato l’indice GINI (in inglese Generalized INequity Index) inventato dallo statistico e sociologo italiano Corrado Gini nel 1912. La formula matematica dell’indice GINI di disuguaglianza non dà molto peso ad importanti variabili della popolazione, come le percentuali di minori ed anziani, ma per circa un secolo nessun altro esperto ha proposto con successo un altro indice alternativo per misurare la disuguaglianza.

Nel 2014, Alex Cobham ricercatore del Centre for Global Development (Washington e Londra) ha proposto un nuovo indice di disuguaglianza chiamato Palma , a suo avviso più attento alle vere dinamiche della disuguaglianza e lo ha definito come “il rapporto tra il reddito posseduto dal 10% più ricco della popolazione diviso per il reddito posseduto dal 40% più povero”. 

In tempi di globalizzazione e di responsabilità comune dell’umanità per il futuro del pianeta alcuni ricercatori hanno creato un indice basato su come e quanto le politiche nazionali di ogni paese contribuiscono al benessere e alla felicit degli altri paesi e l’hanno chiamato Good Country Index.

Alcuni governi e parlamenti in Asia hanno cominciato a prestare molta attenzione ad alcuni indici creati o modificati recentemente che aiutano a fotografare la felicità dei paesi, come ad esempio il SPI Social Progress Index, sviluppato dalla Harvard University ed il QLF Quality of Life Index, messo a punto dall’Economist Intelligence Unit e l’ISEW, Index of Sustainable Economic.

A conferma che adesso l’intera umanità va a caccia di felicità è arrivata l’osservazione degli antropologi e dei guru della comunicazione che hanno scoperto che mentre i colori dell’amore, del successo, del lutto, della vita, del potere e del denaro sono diversi in ogni parte del mondo, il colore della felicità è comune all’umanità intera, in tutte le culture, ed è il colore giallo: sembra che si debba al fatto che tutti sentiamo molta energia e allegria alla vista del Sole.  A mantenere allegra e felice la stessa ricerca scientifica sulla felicità ci pensano diversi gruppi e network professionali su Linkedin e reti specializzate come per esempio l’IRAH International Research Associates for Happy Societies.

Per chi si sente perduto tra troppi pesi e misure della felicità nazionale è comparso infine il WVS, World Value Survey, un’analisi di quali sono i valori e le aspirazioni che più interessano a tutti i popoli del mondo. E il Gross National Happiness Institute offre una mappa globale di tutti gli studiosi e ricercatori della felicità che si occupano di rendere il mondo più felice. Lo hanno chiamato il movimento globale per la felicità, in pratica sono un po’ come le pagine gialle della felicità, cioè un tentativo di mettere una faccia vera, un cuore, un cervello con nome, cognome e indirizzo, invece di accontentarsi solo dello smiley giallo con il sorriso che spesso attacchiamo alle nostre comunicazioni sui social network. 

Usando tutti questi termometri e mappe di felicità, chi ha il coraggio va a vivere nei paesi a più alto tasso di felicità. E l’ultima trovata è quella di cercare il paese più felice dove far nascere i propri figli: per scegliere quello giusto vedi la mappa “Dove è meglio nascere”: Where to be born Index. L’EIU Economist Intelligence Unit, che lo ha sviluppato, lo ha poi trasformato in un rapporto annuale, uscito nell’Agosto 2015, sulla vivibilità di ogni paese; infatti oltre che nascere nel paese più felice, bisogna poi viverci pure. L’EIU fa anche un monitoraggio dei propri visitatori online e ci informa dei dieci paesi più cliccati dai lettori: di essi sei paesi sono in Asia, nessuno in Europa e solo due, gli Stati Uniti e il Brasile, sono in America. Il 66,7 percento dei lettori sono interessati a saperne di più dei paesi asiatici, a meno del 10 percento interessa saperne di più di Europa e Americhe.   

Infine, per chi vuole leggere di più della felicità, l’editore del World Book of Happiness dà accesso online al libro mondiale sulla felicità che ha venduto oltre 200mila copie in sette lingue; e per passare dalla teoria alla pratica lo stesso editore ha raccolto le buone pratiche da ogni parte del mondo secondo cento professori di “amore per essere felici” nel libro World Book of Love.

Insomma… chi vuol esser lieto, sia!  

 

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