Social Innovation: i cavalieri che fecero “impresa”

Dhebora Mirabelli | 10 ottobre 2013

E se per una volta parlassimo di coloro che fecero “impresa”?

Di tutti coloro che si impegnano quotidianamente e con determinazione in azioni, iniziative importanti e difficili ? Non sono loro il vero capitale sociale sul quale investire?

La vera social innovation è intesa dalla mia generazione come innovazione dei processi … io direi culturali prima di tutto. Prendendo spunto da un articolo di Marco Crescenzi che esortava a non piangersi addosso e di non sognare l’America, mi sento in dovere di ribadire che negli ultimi anni il nostro Paese è stato vittima di un inganno, un macroscopico inganno che ha frenato lo sviluppo di capacità e creatività necessari per qualsiasi tipo di “impresa”.

Abbiamo creduto per anni (e la maggior parte ci crede ancora!) che il successo, il senso di appagamento fossero insiti nel concetto di “potere”.

Esercitare potere, occupare posizioni di potere, essere in luoghi di potere … sono queste le cose che spesso crediamo siano motivo di orgoglio e soddisfazione professionale.

Niente potrebbe essere più falso e sbagliato … la bramosia di potere nasconde la sopraffazione dell’individuo verso i suoi simili. Nulla di nuovo, è storia.

Ma se un giorno, proprio in questi contesti, incontrassimo una persona che decidesse di fare del suo “status di apparente privilegio” un’ardua impresa, una battaglia quotidiana ed estenuante verso il cambiamento e la creatività? Sapete cosa succederebbe?

Genererebbe imbarazzo ed indignazione.

Stranezza e diversità sono attribuite a chi dichiara impunemente di voler cambiare le cose, a chi dice “io non ci sto” proprio mentre esercita e gestisce “potere” nei palazzi. Sapete perché? Perché solo allora chi ha fatto di quel macroscopico inganno la sua felicità, il suo successo, la sua soddisfazione … scoprirebbe di aver costruito un castello di sabbia vicino alla riva del mare. Nel momento in cui qualcuno gli oppone resistenza respingendo la logica accomodante del “è meglio non farsi dei nemici”, su di esso si abbatte una piccola onda capace di distruggere in un colpo solo le certezze del comune sentire, della “devozione verso il potere”, di un germoglio di vivere sociale sviluppato al riparo delle mura domestiche.

Ora che presumibilmente la maggior parte di noi si gode le meritate vacanze e si siede su quella riva, desidererei che ciascuno guardasse il crollo di quei castelli di sabbia e pensasse nel corso dell’anno di lavoro trascorso a quanti no avrebbe voluto dire e a quante situazioni avrebbe voluto opporsi, unendosi per l’appunto all’ardua “impresa” di farsi legittimamente dei nemici di potere in nome di quella che viene scambiata per presunzione e che, invece, è solo volontà, competenza, capacità critica e creativa.

Se pure di queste persone ce ne fossero a centinaia … a migliaia (come sono sicura) si passa la vita a chiamarli falliti o stolti, semplicemente incapaci di raggiungere il potere.

Ma se invece al potere dessero la connotazione di “dare agli altri” piuttosto che di possedere, non saremmo forse loro i veri innovatori sociali del nostro tempo?

Siamo pronti a chiamarli eroi invece che inetti? Siamo pronti a dimostrare prima di tutto a noi stessi di non essere creature asociali indirizzate, dai modelli educativi e formativi dei nostri tempi, verso l’egoismo più spietato?

 

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