Alla borsa dei valori, i valori contano

Sandro Calvani e Patrizia Cappelletti | 13 Gennaio 2015

Albert Einstein suggeriva che non tutto quel che si può contare conta davvero e non tutto quel che conta si può contare. Ma è esperienza comune che gli ideali contano davvero nella vita di tutti.

È facile, del resto, capirne il motivo. Gli ideali contano perché muovono e orientano l’energia e le passioni delle persone e mantengono vive e vibranti le organizzazioni e le istituzioni. Perché costituiscono il motore dell’innovazione ed è attorno ad essi che si rigenerano significati individuali e collettivi e prendono vita nuove azioni e forme sociali.

Che gli ideali contino anche a livello economico è invece cosa meno risaputa, e in realtà contano forse più di quanto molti di noi si aspetterebbero. Lo dimostra un rapporto pubblicato negli Stati Uniti nell’Agosto scorso.

“Causes count” è il titolo di una ricerca che si è posta l’obiettivo di definire il valore economico del no-profit californiano. Il rapporto – probabilmente lo studio più completo mai prodotto sul peso di questo settore in California – documenta con grande chiarezza le tendenze più recenti rispetto alla salute finanziaria, alle dinamiche occupazionali e al valore prodotto dal volontariato, al ruolo delle fondazioni nelle attività di finanziamento e ai nuovi significati attribuiti al settore no-profit dai cittadini[1].

La California è uno degli stati più vivaci e produttivi degli Stati Uniti. L’immaginario collettivo la collega immediatamente all’effervescenza della Silicon Valley e all’innovazione tecnologica, ai successi del turismo e dell’industria del vino e ai miracoli di Hollywood.
Per questo sorprende ancora di più che il no-profit guidi la crescita e l’innovazione proprio nella regione americana che è la cattedrale del profitto.
Lo studio californiano ha dimostrato infatti come il no-profit giochi un ruolo straordinariamente importante sul piano economico, collocandosi come la quarta industria dello Stato dopo turismo e tempo libero, commercio e manifattura.

I dati lasciano un po’ stupiti anche i ricercatori che li hanno analizzati: il no-profit è ben più di “quelli che aiutano gli altri”; è diventato invece un vero e proprio motore della crescita economica e dell’innovazione sociale, e addirittura riesce perfino a “regolare” il settore del profitto, orientando significativamente le forme di produzione della ricchezza e la sua distribuzione. Sono tendenze e prospettive rivoluzionarie per il capitalismo americano. Ma invece di preoccuparsi, le imprese americane cavalcano la nuova onda.

La forza economica del no-profit californiano

Ognuno dei risultati dello studio rivela che stiamo parlando di qualcosa di grosso. Prima di tutto il no-profit partecipa per il 15% al prodotto interno lordo della California generando oltre 208 miliardi di dollari di fatturato annuo.

Il settore produce circa 132 miliardi di dollari in beni e servizi diretti, a cui vanno aggiunti altri 128 miliardi ottenuti per effetti indiretti e indotti. Dato che nella realizzazione delle sue attività il no-profit si muove come un qualsiasi soggetto economico – acquista beni e servizi, paga stipendi ai propri dipendenti – il valore globale prodotto va dunque ricondotto ad un circuito economico più ampio.

I numeri della forza lavoro sono in testa alla classifica per settori: il no-profit garantisce 937.000 posti di lavoro dipendente e altri 800.000 derivano dal suo indotto. Mentre una persona su 25 lavora in un ristorante e una su 50 nell’agricoltura, il no-profit californiano genera un posto di lavoro su 16. Circa un milione di californiani lavorano per una organizzazione no-profit, senza contare i volontari.

Gli intervistati, leader di numerose realtà del settore, hanno segnalato una crescente esigenza di nuove assunzioni. Si stima che il numero degli addetti potrebbe aumentare nel corso del prossimo anno di oltre 1.600 nuovi posti di lavoro full time, per un valore minimo indicativo di 19.4 milioni di dollari. E a sorpresa aumenta anche la media delle retribuzioni, con un +26% rispetto al +6% di altri settori.

Ma l’impatto del no-profit sul mercato del lavoro californiano va oltre la sola crescita: gli occupati nel no-profit sono più eterogenei dal punto di vista etnico rispetto alla media californiana, e c’è una maggiore partecipazione delle donne. In pratica il no-profit anticipa la società del futuro, con una forte capacità integrativa delle fasce deboli.

Non ultimo, le attività economiche del no-profit attraggono oltre 40 miliardi di dollari provenienti da altri Stati.
In California lavorano oltre 7.700 fondazioni di tipo diverso, come istituzioni di comunità, charities e fondazioni private. Nel 2011 queste organizzazioni possedevano un patrimonio pari a 102,8 miliardi di dollari e hanno svolto attività di finanziamento per oltre 2 miliardi di dollari a favore non solo di organizzazioni californiane ma anche di realtà fuori dallo Stato.

Le attività principali sono in settori essenziali per il benessere e la felicità della gente come i servizi di salute, educazione, sport e cultura; la parte del leone la fanno la salute e l’alta formazione ed è in questi settori che si concentra la prevalenza della forza lavoro.

I volontari sono il motore centrale del successo del no-profit californiano. I dati indicano che ben il 25% dei cittadini californiani ha svolto attività di volontariato nel corso del 2012, contribuendo con oltre di 938 milioni di ore di servizio gratuito.
Ma non si tratta di un ruolo puramente ancillare o di supplenza: lo studio rileva come più del 50% dei volontari sia coinvolto su due fronti chiave: la realizzazione di programmi di cambiamento sociale e di raccolta fondi. Inoltre, molti volontari fanno parte dei consigli di amministrazione delle loro organizzazioni e operano attivamente in iniziative di coscientizzazione o di coordinamento con enti che svolgono attività di lobby, attività che aumentano fortemente l’impatto del no-profit in termini di raccolta di voti nelle elezioni politiche.

Il volontariato ha dunque un ruolo centrale nella gestione e sviluppo del settore no-profit grazie alla sua esperienza ibrida tra forza lavoro retribuita e gratuita.

Come si finanziano le organizzazioni no-profit?

Oltre al peso del no-profit sull’economia, la ricerca sottolinea che il 76% delle entrate deriva dalle tariffe applicate ai servizi e da contratti, mentre circa il 20% arriva da contributi governativi e privati. Ospedali e università si finanziano sostanzialmente attraverso la realizzazione dei loro servizi, mentre le organizzazioni che operano nel campo delle arti e dell’ambiente contano di più sulle donazioni.

La gestione dei servizi no-profit risulta molto efficace in termini di costo-beneficio ed attenta ad evitare sprechi, fatto che rappresenta un notevole valore aggiunto rispetto alle istituzioni pubbliche. Comparando con altri tipi di organizzazioni, il no-profit ha costi amministrativi più ridotti: l’89% delle loro spese riguarda l’esecuzione dei servizi, il 10% la gestione e le spese generali, e l’1% la raccolta fondi.
Nel 2012, il 29% delle organizzazioni no-profit hanno chiuso il bilancio con una perdita pari o superiore al 5%. La crisi ha evidentemente pesato fortemente anche sul no-profit, ma è indubbia una grande capacità di resilienza di questo tipo di organizzazioni.

La vera marcia in più sono fiducia e legittimazione popolare.

Lo studio descrive bene il livello di fiducia e il grado di legittimazione di cui gode il no-profit presso la popolazione californiana, spiegando come la coincidenza tra immaginario collettivo e alta qualità dei servizi consolidi la credibilità del settore.

I dati sono molto chiari: l’82% degli intervistati pensa che le organizzazioni no-profit operino per il bene pubblico (contro il 45% del settore privato e il 48% delle istituzioni); forniscano servizi di qualità (85%); siano efficaci (77%, più che il privato che ottiene un 72%) e spendano bene le risorse (69%, contro un 31% del settore pubblico).
Insomma il no-profit esprime fedelmente chi sono i californiani e il loro stile di vita.

Il no-profit è fortemente radicato nel territorio e questo lo rende efficace nel captare bisogni vecchi e nuovi, anticipare soluzioni e così produrre innovazione sociale.
Inoltre, immersi come sono dentro la vita e i problemi quotidiani della gente, gli operatori no-profit svolgono un ruolo coesivo molto importante, diventano portavoce dei valori della comunità e difensori di cause civiche.

Il nuovo modello vince, dove la gente lo conosce e crede nel cambiamento.

I risultati del no-profit californiano ci interpellano profondamente. Anzitutto perché non sono un’eccezione. In molte altri Stati americani emergono simili fenomeni di cambiamento, e non lo fanno né lentamente, né timidamente. In Minnesota per esempio sono appena state riconosciute per legge le imprese per il bene pubblico ispirate dal movimento americano per il capitalismo etico, chiamato Caux Round Table, dal nome della località svizzera dove nacque. In pratica si tratta di una vera e propria rivoluzione nel diritto societario americano perché per la prima volta il profitto non è più l’unico obiettivo dell’impresa, ma vengono introdotti altri obiettivi legali come lo sviluppo della comunità e diverse dimensioni del bene pubblico, come ambiente, salute, educazione. L’assemblea degli azionisti delle imprese sociali avranno dunque il diritto e il dovere di giudicare i capi dell’impresa non solo guardando ai profitti, ma anche alla qualità e all’impatto sociale dell’impresa.

Molti altri osservatori esperti come il World Economic Forum, la Banca Mondiale, il recente libro dell’economista francese Thomas Piketty sul capitale nel 21esimo secolo hanno riconosciuto la grande responsabilità delle imprese nel costruire e difendere i beni pubblici globali, allo stesso modo in cui difendono e approfittano del libero mercato. Alcune delle migliori facoltà americane di business – tra le quali anche la Harvard Business School e il notissimo professore Michael Porter – insegnano che la creazione di “beni condivisi” diversi dai prodotti e dal profitto d’impresa sono obblighi dell’impresa non rinunciabili per mantenere sostenibile lo sviluppo del Pianeta.

Le nuove Public Benefit Corporations del Minnesota produrranno una miscela di beni privati e pubblici a prezzi di mercato. Si tratta di imprese “a mezzo di lucro” (non a scopo di lucro) e non di no-profit o enti di beneficenza, e dovranno sopravvivere e crescere grazie al loro successo di mercato e non più su sovvenzioni come avveniva per gli enti no-profit. Il fatto che la legge sia stata votata anche dal partito repubblicano suggerisce che il Minnesota ha scelto una crescita economica più giusta e sostenibile con la partecipazione di tutti, comprese le grandi imprese e i loro azionisti, e non solo con l’appoggio di coloro che, come il partito democratico, chiedono più imposte del governo sulle grandi ricchezze.

Anche in Italia sono in molti a ribadire la necessità di un riconoscimento del no-profit e di un rilancio anche attraverso un’evoluzione legislativa che possa aprire – e non chiudere – nuove possibilità di partecipazione della gente. Alcuni passi avanti in tal senso si stanno facendo con la legge sul terzo settore.
E’ indubbio però che solo un investimento convinto e lo sviluppo di una strategia di sistema potrebbe dare risultati significativi nel demolire i muri che ci sono oggi tra no-profit, impresa e poteri pubblici.

Le lezioni imparate dal capitalismo americano sono molto chiare. Il no-profit non è anti-profitto, né è contrario al mercato libero e al capitalismo, ma produce e aggiunge un altro valore enorme a livello sociale, con un impatto economico diretto e irrinunciabile. In pratica, una collaborazione convinta tra profit e no-profit produce crescita e felicità nella comunità. Il muro d’indifferenza e diffidenza tra i due settori produce stagnazione e quei tassi di disuguaglianza, disoccupazione crescente, impoverimento diffuso, indebolimento della coesione sociale e mancanza di visione per il futuro che tutti riconosciamo nelle società civili che non abbracciano questa trasformazione.

Una conferma forte e indiscutibile viene dall’Asia: il continente che da solo ha più popolazione degli altri continenti messi insieme continua a veder crescere le sue economie, più attente di ogni altra parte del mondo a usare anche il profitto come strumento per costruire bene pubblico, invece che come obiettivo unico dell’impresa.

Un biologo direbbe che è solo nell’incontro e fusione tra due forme di vita diverse e complementari che nasce vita nuova e sostenibile. È ormai dimostrato che è così anche per le economie immerse nella globalizzazione. L’innovazione sociale che mette insieme produttività e felicità è generativa di crescita sostenibile.

In Italia varie esperienze di dialogo tra imprese e no-profit hanno già fatto qualche primo passo verso una collaborazione costruttiva, ma sono ancora viste dal grosso del business e della politica come piccole minoranze etiche, i più bravi e un po’ sognatori. Certo non sono mancati alcuni interessanti tentativi, soprattutto in Lombardia e Piemonte, ma spesso sono iniziative in competizione tra loro e comunque frammentate. E questo non può che depotenziare l’innovazione. Un proverbio asiatico suggerisce saggiamente che “mille onde che arrivano sulla spiaggia ogni giorno, non la cambiano; uno tsunami sì”.

[1] Il rapporto completo sul no-profit della California è disponibile online all’indirizzo:https://www.academia.edu/8606338/Causes_Count_The_Economic_Power_of_Californias_Nonprofit_Sector
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